Siria: Assad guarda al Golfo?

Articolo originale pubblicato su ispionline.it il 13 novembre 2018

Eugenio Dacrema

Se fosse un’opera teatrale, questo sarebbe uno di quei colpi di scena che cambiano le certezze del pubblico. In una guerra, una mossa del genere rischia però di trasformarsi in un boomerang. Per questo è utile prima di tutto saggiare preventivamente effetti e potenziali reazioni ostili prima di portarla a termine. È quello che sta accadendo in questi giorni con quella che potrebbe trasformarsi in una delle svolte più significative del conflitto siriano: il presunto riavvicinamento tra regime siriano e monarchie del Golfo – in particolare Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita – in chiave “anti-Fratellanza Musulmana”.

La mossa suona sorprendente per diverse ragioni: EAU e Arabia Saudita sono nemici strategici del regime di Bashar al-Assad da molto tempo, da ben prima dell’attuale conflitto civile. Fin dalla fondazione della Repubblica Islamica iraniana – l’“arcinemico” di sauditi ed emiratini nella regione – la Siria ne è diventata infatti il principale alleato arabo nella regione, agli occhi di Teheran secondo per importanza solo alla sua più riuscita creatura: l’Hezbollah libanese. Una alleanza conservatasi anche nei momenti di peggiore crisi per entrambi i Paesi e rinnovatasi durante la terribile guerra civile che ha devastato la Siria negli ultimi sette anni. Nonostante un’economia messa in ginocchio da sanzioni e isolamento internazionale, l’Iran non ha infatti lesinato denari e uomini per evitare la caduta dell’alleato Assad. Dall’altra parte, soprattutto i sauditi sono intervenuti massicciamente a favore dell’opposizione armata. Anche se non esistono cifre ufficiali, Riyadh avrebbe riversato centinaia di milioni di dollari nel sostegno a diversi gruppi islamisti armati dello scenario siriano, tra cui Jaish al-Islam, formazione oggi in forte declino, ma fino a qualche anno fa tra gli attori più forti dell’opposizione e gruppo dominante nell’enclave strategica di Ghouta.

Acerrimi nemici quindi, opposti lungo quell’asse “sciiti-sunniti” che dietro alle dispute settarie nasconde la lunga competizione geopolitica tra Arabia Saudita e Iran. Nemici il cui avvicinamento strategico rischierebbe di mettere in pericolo altre storiche alleanze e la stabilità stessa del regime siriano. È quindi possibile che ciò accada?

Prima di tutto è necessario sottolineare che nulla è stato ancora confermato sui canali ufficiali. L’unica notizia più o meno confermata dalla testata online Al-Masdar – considerata fonte vicina al regime – è la prossima riapertura dell’Ambasciata degli EAU a Damasco, chiusa dopo lo scoppio delle proteste e la sanguinosa repressione del regime. La notizia è stata poi ripresa da diversi account social considerati da tempo “voci informali” del regime (due esempi sono questo e questo), usate per diramare messaggi e commenti che per varie ragioni non si desidera far passare dai canali ufficiali. Già in passato questo tipo di canali hanno preannunciato alcune posizioni e svolte del regime, come l’intervento russo, prima dei media ufficiali, e per quanto le trattative in corso potrebbe non necessariamente portare a risultati, il fatto che queste “voci” ne parlino è indice che qualcosa si sta sicuramente muovendo. Secondo i dettagli trapelati da questi account la riapertura sarebbe infatti il primo risultato di trattative condotte da alcuni mesi tra rappresentanti del regime e degli EAU – in primis Dubai, la quale sarebbe poi riuscita a coinvolgere nell’iniziativa l’emirato chiave di Abu Dhabi. L’accordo sarebbe finalizzato a normalizzare le relazioni fra i due Paesi e avrebbe visto il coinvolgimento, per ora solo indiretto, anche dell’Arabia Saudita, la quale sarebbe propensa ad aderire al piano nei prossimi mesi. La cornice di tale riavvicinamento geopolitico sarebbe una nuova alleanza contro la Fratellanza Musulmana internazionale, geopoliticamente incarnata da Qatar e Turchia. Quest’ultima è diventata da circa un anno e mezzo il principale sponsor dell’opposizione siriana, occupando anche territori nel nord del Paese. Arabia Saudita ed EAU conducono da metà 2017 una intensa campagna politico-diplomatica contro il Qatar, accusato di sostenere gruppi islamisti e di mirare all’egemonia regionale, alla quale Doha è finora riuscita a fare fronte soprattutto grazie all’appoggio della Turchia e, indirettamente, dell’Iran. Damasco andrebbe così a inserirsi in questa relativamente nuova divisione intra-sunnita, schierandosi con Riyadh e EAU contro quei paesi che oggi sono i principali sostenitori della sua opposizione interna. Secondo queste “voci informali” vicine al regime, tale mossa non metterebbe assolutamente in discussione l’alleanza storica con l’Iran pur evidenziando l’indipendenza diplomatica di Damasco rispetto a Teheran. Una precisazione che sa di “excusatio non petita” che rivela una certa preoccupazione rispetto alle possibili reazioni iraniane, e che spiegherebbe anche perché si è preferito finora mantenere un basso profilo facendo passare indiscrezioni solo attraverso canali informali.

In realtà, è necessario dire che il ridimensionamento della presenza iraniana in Siria va avanti da diverso tempo, soprattutto su pressione russa ma con l’avvallo discreto del regime. Numerose milizie un tempo sul libro paga di Teheran sono state smantellate negli ultimi mesi, sciolte o accorpate a nuovi reparti dell’esercito regolare sotto supervisione russa. Hezbollah e gli altri proxy iraniani non avrebbero preso parte a quasi nessuna delle ultime operazioni militari a cominciare dall’offensiva nel sud che ha riportato sotto il controllo di Damasco le province di Daraa e Quneitra. Segnali che sembrano sottolineare come il regime, ormai vicino alla vittoria completa, abbia sempre meno bisogno dell’apporto militare iraniano, diventato anzi più una fonte di tensioni con potenti nemici di Teheran come Israele e Stati Uniti, che in questi anni non hanno mancato di lanciare operazioni in territorio siriano proprio per colpire proxy e truppe iraniane. Insomma, un alleato diventato sempre meno utile e sempre più scomodo, soprattutto in vista di un periodo post-conflitto che si preannuncia estremamente complesso e costoso. Più che combattenti, infatti, in futuro Damasco avrà bisogno di denari e contributori facoltosi per la ricostruzione del Paese, definizione che calza poco con i suoi due principali alleati Russia e Iran, Paesi geopoliticamente forti ma dall’economia piuttosto debole. In questo senso le ricche monarchie del Golfo si prestano perfettamente grazie alla loro ingente disponibilità finanziaria e, al contrario dei potenziali donor occidentali, al loro scarso interesse a imporre condizioni relative ad aperture politiche e rispetto dei diritti umani.

Dal canto loro, EAU e Riyadh hanno tutto l’interesse a sottrarre almeno in parte Damasco dall’influenza iraniana e di stabilizzare il Levante contribuendo a mettere fine a un conflitto che ormai l’opposizione che un tempo sostenevano non può più vincere. Damasco potrebbe perfino diventare, col sostegno del Golfo, una spina nel fianco della Turchia come lo è stata negli anni Ottanta attraverso il supporto ai movimenti curdi in guerra contro l’esercito turco. Con l’appoggio al Qatar e alla Fratellanza Musulmana internazionale, e più recentemente con la campagna anti-saudita guidata da Erdogan sul caso Khashoggi, Ankara si è infatti trasformata agli occhi delle ricche monarchie del Golfo in un formidabile competitor regionale, potenzialmente non meno pericoloso dell’Iran nel lungo termine.

Questo riavvicinamento, per quanto contrario alle logiche classiche utilizzate per guardare al Medio Oriente, non è quindi privo di motivazioni significative. Ed è proprio per questo che esso non è rilevante solo per gli sviluppi futuri della guerra siriana. È infatti, prima ancora, un indizio importante di un processo in corso da alcuni anni che ha portato a un sostanziale “scoagulo” dei tradizionali assi portanti della politica mediorientale. Il ridimensionamento dell’influenza statunitense, l’entrata in campo di nuovi attori internazionali da tempo spariti dalla scena come la Russia (e la Francia in misura minore), e soprattutto l’accresciuta assertività di alcune potenze regionali come Iran, Arabia Saudita, EAU e Turchia hanno portato a una trasformazione strutturale degli equilibri politici regionali, favorendo una fluidità senza precedenti di alleanze e contrapposizioni. Per capire il Medio Oriente di oggi, e soprattutto di domani, è quindi necessario privarsi di ogni filtro ideologico (imperialismo-anti-imperialismo) o settario (sunniti-sciiti) e imparare nuovamente a guardare ciò che accade attraverso le lenti della pura politica di potenza.

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