Siria: l’ora della ricostruzione?

Articolo originale su ISPI Online
di Julien Barnes-Dacey

Dopo quasi otto anni di conflitto, Bashar al-Assad ha vinto la guerra civile e la Siria sta entrando in una nuova fase. Sebbene gran parte del paese rimanga al di fuori del controllo del governo di Damasco e la violenza continui a imperversare, l’attenzione nazionale e internazionale è sempre più rivolta alla fase post-bellica.

Dato il contesto, è probabile che nel 2019 assisteremo a un significativo cambiamento nel dibattito sulla Siria e che la questione della ricostruzione si confermerà centrale nel continuo braccio di ferro che riguarda la legittimità e la sostenibilità della vittoria di Assad. È improbabile che si faranno molti passi avanti sul fronte della ricostruzione, anche se in parte è già in corso. Nei fatti, le necessità sono impellenti, ma il governo ha poche risorse disponibili e né i suoi alleati esterni, né i suoi oppositori riusciranno a racimolare i circa 300 miliardi di dollari necessari per rimettere in sesto il paese. Il dibattito resterà prevalentemente simbolico e si incentrerà su due visioni contrapposte del destino del paese.

Per il regime e i suoi sostenitori, parlare di ricostruzione significa dimostrare che il conflitto si è definitivamente concluso a favore di Assad. Da un lato, i tentativi del regime di avviare progetti di ricostruzione, seppure limitati, rappresentano un mezzo per consolidare la propria posizione e premiare economicamente la base di sostegno del regime. Ci si può aspettare che Damasco presieda una rete di mecenatismo corrotto che cerca di sfruttare le ricadute economiche legate alla ricostruzione a vantaggio del regime. Ma, più in generale, Damasco è intenzionata a sfruttare questa occasione per segnalare che il governo ha ristabilito la normalità. In tal senso, il sostegno internazionale a questo processo è percepito come un passo importante per garantire una più ampia legittimazione alla vittoria di Assad. Il recente tentativo della Russia di vincolare gli aiuti europei alla ricostruzione sembra essere guidato dall’ambizione politica, al di là del desiderio di vedere il paese risollevarsi.

È significativo, tuttavia, che Damasco, a differenza di Mosca, non voglia che il sostegno alla ricostruzione provenga dall’Occidente, preferendo invece concentrarsi sull’assicurarsi aiuti regionali e non occidentali che, a suo avviso, non hanno il secondo fine di minarla dall’interno. Con la recente riapertura del confine siriano con la Giordania e con l’intensificarsi dei negoziati con gli attori del Golfo, Damasco ha percepito l’opportunità economica di un reinserimento regionale. A questo scopo, il possibile ritorno della Siria all’interno della Lega araba nel 2019 sarebbe di importanza simbolica. Nel frattempo altri attori, come la Cina, vedono aprirsi opportunità di dialogo con il paese. Saranno probabilmente questi stati, e non gli attori occidentali, i principali motori della limitata ricostruzione che comincia ad emergere nelle parti di
territorio controllate dal regime.

Da parte loro, i sostenitori occidentali dell’opposizione sono determinati a negare al regime la carta legittimante del sostegno alla ricostruzione. Per il momento faranno il possibile per continuare a screditare Assad – anche attraverso l’uso di sanzioni mirate, che alla fine rappresentano uno strumento di influenza occidentale più importante del sostegno alla ricostruzione, per bloccare gli aiuti da altri paesi. Anche se Europa e Stati Uniti hanno accettato a malincuore la vittoria di Assad e la necessità di ricostruire almeno in parte il paese, con il passare del tempo andranno incontro a pressioni sempre maggiori per fornire aiuti alla Siria. Ciononostante, stanno ancora tentando di mantenere una posizione che gli permetta di non fornire vantaggi economici o legittimità politica ad Assad (o ai suoi alleati esterni, prima di tutto Russia e Iran). C’è inoltre ancora qualche speranza che Assad possa essere costretto a “perdere la pace”, in parte negandogli il sostegno alla ricostruzione per alimentare il malcontento esasperando la pressione interna sul regime per ottenere vantaggi politici.

Tuttavia, l’annuncio di Trump nel dicembre 2018 circa il ritiro in tempi rapidi delle forze militari nel nord-est della Siria da parte degli Stati Uniti minaccia di scompaginare questa strategia. L’approccio dell’Occidente si è basato finora, almeno in parte, sul controllo del nord-est del paese, così ricco di risorse, per evitare che Damasco potesse sfruttarlo per il suo tornaconto economico. Già da tempo era chiaro che l’Occidente non avrebbe investito risorse significative negli sforzi di stabilizzazione post-ISIS in Iraq, né
nei territori siriani non controllati dal regime. Ma l’annunciato ritiro delle truppe USA consoliderà la retorica di un futuro radicato in Siria: infatti Damasco potrebbe rapidamente riportare i suoi soldati nell’area. Ristabilire un controllo del governo centrale sul nord-est porterebbe a Damasco importanti risorse economiche che potrebbero aiutare il regime a stabilizzare la situazione a sua favore, dando slancio alla sua capacità di portare avanti progetti di ricostruzione e indebolendo le influenze residue degli attori esterni.

L’anno prossimo, è quindi probabile che la ricostruzione proceda tra questi poli divergenti, anche se in un modo che, lentamente ma inesorabilmente, andrà a vantaggio del regime. È probabile che Damasco continui a fare passi avanti in un processo che non fa che attirare interventi dall’esterno. Organismi internazionali come il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo stanno già finanziando una miriade di progetti di stabilizzazione che si spingono, almeno in parte, fino alla ricostruzione, come per esempio la ristrutturazione delle centrali elettriche. La realtà è che, qualunque sia il punto di vista del regime siriano, queste priorità sul campo sono necessarie al paese a i cittadini. Mentre gli Stati Uniti continueranno probabilmente a restare a guardare, i governi europei, spinti da un imperativo umanitario, potrebbero essere maggiormente portati a fare di più. Questo potrebbe lentamente erodere l’attuale volontà europea di non dare legittimità al regime. Ciò avverrà in particolare se i vantaggi della stabilizzazione incoraggeranno il ritorno dei profughi – una priorità per i paesi europei e della regione. Mosca ha parlato attivamente della ricostruzione come prerequisito per i rimpatri volontari, cercando di sfruttare la vulnerabilità politica dell’Europa in materia.

Il focus sulla ricostruzione del prossimo anno potrebbe non godere di un ampio sostegno internazionale o trasformare in modo significativo la situazione sul terreno. I bisogni impellenti del popolo siriano non saranno comunque soddisfatti, ma si potrebbe ulteriormente consolidare l’attuale situazione in favore del regime. La discussione non riguarderebbe più la transizione ma la gestione della sopravvivenza del regime stesso. Così facendo, si potrebbe iniziare a diffondere un senso di normalizzazione tale da soddisfare gli obiettivi fondamentali del regime a livello nazionale e internazionale.

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