Riparte da Ginevra il dialogo per la Siria

Articolo originale pubblicato su Riforma.it il 18/12/2018
di Marco Magnano

Nella città svizzera i rappresentanti dei principali attori regionali della guerra siriana incontrano l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan De Mistura, per formare l’assemblea costituente

Si apre oggi a Ginevra una riunione dei ministri degli Esteri di Iran, Russia e Turchia insieme all’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan De Mistura. Lo scopo è quello di individuare un percorso credibile per una soluzione politica della guerra civile siriana, cominciata nel 2011 e ancora in corso, anche se in zone sempre più ridotte del Paese. In particolare, in questo incontro si intendono porre le basi per l’istituzione di un comitato che avrà il compito di redigere una bozza della nuova Costituzione del Paese, così come previsto sin dal 2015 dalla Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

La partita in questo momento, al tavolo negoziale, si gioca sui nomi delle 150 persone che comporranno il comitato: una lista di 50 componenti è stata presentata dal governo siriano, una di pari ampiezza dalle opposizioni che hanno partecipato al percorso di pacificazione e una terza, comprendente figure “indipendenti” e altre provenienti dalla società civile, dalle Nazioni Unite. Su quest’ultima, finora non si è mai arrivati a un accordo. Nella riunione di oggi, invece, i ministri degli Esteri di Iran, Russia e Turchia presenteranno una proposta congiunta sui rimanenti 50 membri che potrebbe ottenere il via libera da parte della comunità internazionale.

De Mistura, che lascerà l’incarico a fine anno e sarà sostituito dal diplomatico norvegese Geir Pedersen, quarto inviato Onu per la Siria dall’inizio della guerra nel 2011, ripete da anni che per funzionare il processo di pace ha bisogno di essere «credibile, bilanciato e inclusivo». Oggi quei termini vengono indicati come centrali anche nella creazione del comitato costituente: proprio per questo individuarne i membri è fondamentale per rivitalizzare il processo di pace, che oggi appare fermo.

La Turchia, attraverso il suo ministro degli Esteri, Mevlüt Çavusoglu, aveva annunciato domenica la propria disponibilità a lavorare con il presidente siriano Bashar al-Assad qualora avesse vinto delle elezioni democratiche. Certo, ci sarebbe da ridire sul concetto di “elezioni democratiche” espresso dalla Turchia, ma si tratta di un’apertura importante da parte del principale sostenitore del Fronte di Liberazione Nazionale, un’organizzazione ribelle che include anche ciò che resta dell’Esercito Libero Siriano, protagonista della prima fase dell’insurrezione e poi della guerra civile.

Il Fronte di Liberazione Nazionale controlla Idlib, l’ultima roccaforte ribelle nel nord ovest della Siria, intorno a cui a ottobre è stata costruita una “zona cuscinetto” frutto dell’accordo tra Russia e Turchia. La creazione di questa striscia, da cui sono state rimosse le armi pesanti e che si estende dalla zona a nord di Latakia fino a sfiorare la periferia occidentale di Aleppo, ha permesso finora di evitare un attacco su larga scala da parte del governo siriano e della Russia contro la città.

L’incontro di Ginevra arriva in un momento complicato per il processo di pace, perché segue di un mese il fallimento di Astana, in Kazakhstan, quando le parti non erano riuscite ad accordarsi sulla composizione del comitato costituzionale. Inoltre, nei giorni scorsi Bashar al-Assad ha dichiarato la propria contrarietà alla totale riscrittura della Costituzione, affermando di essere disposto ad accettare soltanto modifiche al testo già esistente e sfidando quindi l’intesa di Sochi (Russia) del gennaio 2018, che ribadiva la centralità della Risoluzione 2254.

A marzo la guerra siriana entrerà nel suo nono anno. Nel frattempo oltre 500.000 persone sono state uccise o sono morte in conseguenza più o meno diretta del conflitto. Un milione e mezzo di civili hanno riportato invalidità permanenti e almeno 86.000 persone hanno subito mutilazioni a gambe o braccia. Inoltre, quasi 5 milioni e mezzo di bambini siriani hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. Nel 2017, le Nazioni Unite hanno verificato 175 attacchi armati contro personale o infrastrutture sanitarie e scolastiche e la capacità degli attori umanitari di raggiungere le persone bisognose ha continuato a essere ostacolata da intense ostilità, interruzione delle principali vie di accesso, ordigni inesplosi, ostacoli burocratici, restrizioni da parte di organi di controllo e carenza di fondi da parte della comunità internazionale, al punto che meno della metà dei complessi sanitari sono oggi operativi.

Secondo il rapporto 2018 dedicato alla Siria, redatto dall’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, soltanto sette persone su dieci sono state raggiunte da interventi di base, come quelli dedicati alla sicurezza alimentare, lasciando gli altri completamente allo sbando. Dati ancora più drammatici riguardano gli interventi dedicati alla protezione dell’infanzia e alla violenza di genere, settori nei quali solo il 6% e il 3% degli individui vulnerabili sono stati raggiunti. Tra gennaio e settembre 2018, le Nazioni Unite hanno verificato l’uccisione di 870 bambini: il numero più alto di sempre nei primi nove mesi di qualsiasi anno dall’inizio del conflitto.

Mentre la situazione umanitaria del Paese continua ad andare a fondo, in questi ultimi anni gli scenari geopolitici della Siria sono cambiati molte volte e anche gli obiettivi dei diversi attori si sono adeguati a questi cambiamenti. Attualmente, infatti, nessuno sembra più pensare a rovesciare immediatamente Assad, mentre tutto sembra ruotare intorno al futuro assetto del Paese e agli equilibri che ne deriveranno. L’amministrazione statunitense ha dichiarato in più occasioni la propria volontà di ritirarsi il prima possibile dallo scenario siriano, soprattutto per non compromettere i già fragili rapporti con la Turchia, membro chiave della Nato e attore regionale di primissimo piano. La prospettiva di un disimpegno degli Stati Uniti, tuttavia, lascerebbe soli i curdi siriani, protagonisti della lotta contro il Daesh ma ancora oggi circondati da forze ostili, a partire proprio dalla Turchia.

Oggi, Russia e Stati Uniti ritengono che una qualche forma di autonomia per i territori curdi del nord sia necessaria, ma la prospettiva di una decentralizzazione è vista con ostilità dal governo siriano, che ha finora fatto resistenza a qualunque ipotesi in questo senso. Ci sono però diversi motivi per cui la posizione di Damasco potrebbe ammorbidirsi nei prossimi mesi, prima di tutto perché un accordo con le forze curde garantirebbe il ritorno in tempi brevi del governatorato di Raqqa e dei principali giacimenti petroliferi dell’est sotto il controllo governativo. Per i curdi, un modello federale, o addirittura confederale, andrebbe esteso a tutto il Paese, anche se questa opzione è sgradita tanto al governo di Assad quanto alle opposizioni, che temono possa venire meno l’unità territoriale del Paese, in realtà ampiamente compromessa da questi anni di conflitto.

Sin dalla fine del 2016, sul tavolo del governo siriano è presente una proposta russa per la Siria postbellica: oltre all’assetto federale, Mosca chiede a Damasco di modificare il nome ufficiale del Paese, togliendo l’aggettivo “araba”, riconoscendo dunque maggiori diritti culturali e linguistici a tutte le minoranze etniche e religiose, e si propone poi di creare un nuovo organo, l’Assemblea delle regioni, che andrebbe ad affiancare il parlamento e che nelle dichiarazioni sarebbe espressione dei territori. Già nel marzo del 2017 il ricercatore e analista del Cesi (Centro Studi internazionali), Lorenzo Marinone, scriveva che «Il decentramento amministrativo proposto dal Cremlino si infatti a quei Consigli locali che sono l’espressione più dimenticata e al contempo tradita delle manifestazioni pacifiche del 2011. Fin da allora in centinaia di città siriane sono sorti questi organi di autogoverno, che seguono procedure democratiche, indicono elezioni locali e hanno sempre tentato, anche sotto le bombe, di rappresentare un’alternativa concreta al regime di Assad diventando punto di riferimento per parte della popolazione».

Per Staffan De Mistura il comitato costituente può e deve essere il punto di partenza per il progresso politico, perché la discussione su una nuova Costituzione «riguarda per esempio i poteri del presidente, potrebbe e dovrebbe riguardare il modo in cui le elezioni vengono condotte, la divisione dei poteri». De Mistura si trova a fronteggiare grandi pressioni affinché accetti la proposta del trio di completare la costruzione dell’organo costituente, ma potrebbe lasciare la decisione al Segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, con cui si incontrerà giovedì 20 dicembre per presentare le conclusioni del lavoro di questi giorni. «L’ultima parola – ha infatti dichiarato domenica De Mistura – spetta alle Nazioni Unite».

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