Offensiva turca in Siria, gli scenari regionali e globali

Quali sono le cause e quali le conseguenze regionali e globali dell’iniziativa portata avanti da Erdoğan con la campagna turca Fonte di pace in Siria?

di Francesco Petronella

Pubblicato su Treccani Magazine l’11/10/2019

«Questa è una guerra strana, una guerra sporca». Karim Franceschi è un giovane italiano che ha combattuto lo Stato islamico in Siria tra i volontari internazionali accanto alle milizie curdo-arabe. Rispondeva con queste parole ai suoi commilitoni quando gli ponevano un’unica, ma pressante domanda: perché loro – internazionalisti, socialisti, libertari e di sinistra – collaboravano con l’Occidente capitalista e in particolare con gli Stati Uniti? Gli eventi della prima settimana di ottobre sembrano aver dato una risposta definitiva a tale interrogativo. Quella tra Stati Uniti e FDS (Forze Democratiche Siriane), unità curdo-arabe dominate dalle YPG (Yekîneyên Parastina Gel, ‘Unità di protezione popolare’) curde, era un’alleanza tattica, non strategica. Destinata, dunque, ad esaurirsi una volta raggiunto l’obiettivo comune di medio-breve termine: la sconfitta dell’autoproclamato Califfato in Siria e Iraq.

L’annuncio da parte del presidente Donald Trump del ritiro americano dalla Siria settentrionale, consegnata de facto dal regime di Bashar al-Assad alle YPG a partire dal 2012, ha dato luce verde nell’area all’operazione turca ribattezzata Fonte di pace. Obiettivo dell’iniziativa militare di Ankara è quello di spezzare la continuità territoriale curda al confine con la Turchia, che considera le YPG gruppi terroristi, e ricollocare nell’area una parte dei 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani in territorio turco. Questa zona della Siria è da sette anni nelle mani delle YPG legate al PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, ‘Partito di unione democratica’) nonché costola siriana del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, ‘Partito dei lavoratori del Kurdistan’) curdo-turco. Forti dell’appoggio aereo della coalizione internazionale a guida americana, le milizie curdo-arabe hanno resistito all’avanzata dei jihadisti dell’Isis per poi passare al contrattacco fino a conquistare Raqqa (novembre 2017), in un’offensiva conclusasi a febbraio 2019 a Baghuz. Nelle aree passate sotto il loro controllo, da Kobane a Tell Abyad, da Tell Halaf a Ras al-Ayn, le YPG hanno impiantato il modello politico del confederalismo democratico, teorizzato dal leader curdo-turco Abdullah Öcalan.

Il cambio di rotta sulla Siria voluto da Trump, e annunciato dopo una telefonata con l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, è stato oggetto di aspre discussioni tra le alte sfere di Washington, tanto che Difesa e Pentagono hanno successivamente ridimensionato l’entità del disimpegno americano nel Paese. Sta di fatto che il messaggio ad Ankara è arrivato forte e chiaro: nel giro di 48 ore aerei F-16 e artiglieria turchi hanno bombardato una serie di postazioni delle YPG per aprire la strada all’avanzata delle truppe di terra oltre il confine turco-siriano. Al fianco delle forze turche combattono anche gruppi di ribelli siriani anti-Assad, cooptati da Ankara come gruppi di supporto contro le YPG.

Tra le cause che potrebbero celarsi dietro l’annuncio di Trump – non del tutto inatteso, dato che del disimpegno americano in Siria si parla da quasi due anni – potrebbero esserci un paio di ragioni legate alla politica interna americana. La prima è che il ritiro del contingente Usa dalla Siria rappresenta un argomento molto spendibile in termini elettorali, specie in vista delle presidenziali del 2020. «Our boys, our young women, our men. They’re all coming back» dichiarava l’inquilino della Casa Bianca già a dicembre 2018. In secondo luogo, la mossa trumpiana potrebbe essere anche una strategia per sparigliare un po’ le carte del dibattito pubblico, distogliendo l’attenzione da dossier scottanti come il Russiagate, l’inedito caso Ucraina e i contatti pericolosi del procuratore generale William P. Barr coi governi di Australia e Italia. Di fronte alle preoccupazioni manifestate a livello internazionale, poi, Trump ha assicurato che se l’esercito turco – il più potente del Medio Oriente – dovesse spingersi troppo oltre in termini di violenza e vittime civili, Washington avvierebbe ritorsioni di natura economica verso Ankara.

Quali che siano le cause, però, ciò che più conta in questa fase sono le conseguenze dell’iniziativa portata avanti da Trump e dalla campagna turca Fonte di pace. La terza in territorio siriano dopo le operazioni Scudo dell’Eufrate del 2016 e Ramoscello d’ulivo del 2018, entrambe condotte dalla Turchia sempre in funzione anti-YPG. L’esito del nuovo confronto tra l’esercito turco e le forze curdo-siriane è meno scontato di quel che potrebbe sembrare. Le YPG curde, inglobate nelle FDS, sicuramente soffriranno l’assenza di copertura aerea da parte degli Stati Uniti, ma ciò non toglie che tali formazioni sono oggi meglio equipaggiate e addestrate di quanto non fossero nel corso delle operazioni turche precedenti. All’orizzonte, dunque, potrebbe profilarsi una guerra lunga e logorante, non il Blitzkrieg auspicato da Ankara. A livello militare, poi, le YPG potrebbero tentare un riavvicinamento tattico al regime di Assad, intenzionato più che mai a contrastare i ribelli anti-governativi che combattono assieme ai turchi.

Non è da escludere, inoltre, che l’idea di impantanare la Turchia in un simile scenario possa configurarsi come uno degli obiettivi di Trump, che ottiene in questo senso anche un altro risultato: mettere i turchi contro Russia e Iran, i due Paesi che con Ankara formano il terzetto di Astana. Si tratta di un meccanismo decisionale, parallelo e concorrente rispetto a quello delle Nazioni Unite, tramite il quale i tre Stati hanno praticamente deciso le sorti della Siria a partire dal 2017. Il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov, da questo punto di vista, ha confermato di non aver ricevuto alcuna informazione dagli Stati Uniti sull’imminente ritiro, lasciando intendere il disappunto di Mosca per la mossa di Trump. Mentre il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha espresso la contrarietà della Repubblica islamica a qualsiasi operazione militare della Turchia nel Nord-Est della Siria. Sia Mosca che Teheran, inoltre, ripetono costantemente il mantra della “integrità territoriale siriana”, lasciando intendere che il progetto di una safe zone a nord del Paese sotto l’influenza turca non è cosa gradita ai loro occhi.

Tra russi e iraniani, entrambi impegnati in Siria al fianco di Assad, c’è da aspettarsi che i primi mantengano un atteggiamento più morbido verso l’impresa turca anti-YPG, specialmente ora che Ankara è così aperta al dialogo con Mosca da aver ufficializzato l’acquisto dei famigerati sistemi anti-missile S-400, suscitando disappunto tra i corridoi di Washington verso l’alleato NATO. L’Iran ha qualche ragione in più per guardare con preoccupazione alla situazione sul campo, dato che Teheran e Ankara, pur facendo parte del suddetto meccanismo di Astana, nell’area hanno agende egemoniche opposte e – per molti versi – inconciliabili.

Le conseguenze del ritiro americano – ridimensionato nel giro di poche ore ad un semplice «spostamento di 50-100 militari» statunitensi in altre zone della Siria – potrebbe sortire effetti considerevoli non solo a livello regionale, ma addirittura globale. Su qualsiasi tipo di interferenza europea, ad esempio, pende la spada di Damocle dei milioni di rifugiati siriani in Turchia, che il presidente Erdoğan ha più volte minacciato di lasciar partire verso il vecchio continente. A questo si aggiunge il fatto che, qualora Fonte di pace abbia successo, passerebbero in mano turca anche tutti i prigionieri, attualmente custoditi dai Curdi, che una volta facevano parte dello Stato islamico. Non si tratta solo di ex combattenti, ma anche di donne e bambini “figli di Daesh”, spesso provenienti da Paesi occidentali. Non è da escludere che Erdoğan, col solito pragmatismo, utilizzi anche questa carta per incrementare il proprio leverage verso i partner europei.

Le reazioni delle cancellerie occidentali, in effetti, sono state piuttosto tiepide fino a questo momento. «Azioni unilaterali – ha dichiarato il capo della diplomazia italiana Luigi Di Maio ‒ rischiano di pregiudicare i risultati raggiunti nella lotta contro la minaccia terroristica, a cui l’Italia ha dato un significativo contributo, e destabilizzare la situazione sul terreno». Inoltre, a livello globale, grossi punti interrogativi potrebbero farsi largo nei prossimi giorni non tanto tra i nemici storici degli Stati Uniti, quanto tra i loro alleati. Ilham Ahmed, copresidente del Consiglio democratico siriano (ombrello politico delle FDS), in un editoriale sul Washington Post ha definito la condotta di Trump come un vero e proprio tradimento a danno dei Curdi. Occorre precisare, tuttavia, che identificare l’intero popolo curdo con le YPG, o con il partito politico di cui le YPG sono il braccio armato, rappresenta una semplificazione grossolana (e tuttavia abbastanza diffusa nei media occidentali e italiani).

È legittimo chiedersi come reagiranno, di fronte a questo “tradimento”, gli alleati Usa nella regione e in altri quadranti geopolitici. Lo Stato di Taiwan, ad esempio, resiste con tenacia alle lusinghe (e alle minacce) della Cina, che considera il Paese insulare una propria provincia a tutti gli effetti. L’indipendenza di Taiwan da Pechino, cruciale per gli equilibri di forza sino-americani nel Pacifico, si basa sul supporto di Washington verso Taipei in funzione anti-cinese. Se gli Usa si sono dimostrati un partner inaffidabile con gli (ex) alleati delle YPG, nulla vieta di pensare che altre relazioni militari positive – come quella con Taiwan – possano un giorno venir meno in nome di nuovi obiettivi strategici o – più prosaicamente – elettorali.

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