di Marco Pasquini – Direttore di Armadilla
La storia del Medio Oriente è complessa e difficile da interpretare; molto spesso si dice che è un caos e che non sia possibile capire realmente cosa sta succedendo. Le analisi sono spesso condizionate dalle esigenze propagandistiche delle diverse parti e si difendono posizioni e interessi che molto spesso niente hanno a che vedere con la realtà dei fatti. Troppe guerre in cui la prima vittima è sempre la verità.
Armadilla è presente continuativamente nella regione, dal 2004, con propri operatori. Cerca di svolgere adeguatamente il proprio ruolo nell’àmbito degli aiuti umanitari e della cooperazione internazionale, con imparzialità, neutralità e rispetto del codice etico di questo settore. Ma tenta anche di capire le cause di tante guerre, conflitti e carneficine.
L’irrompere sulla scena internazionale delle emergenze complesse ha creato una drammatica semplificazione del pensiero politico e si corre sempre il rischio di essere invitati o forzati a schierarsi come tifosi per una parte del conflitto. Quel che appare chiaro è che in tutte le guerre è continua, ripetuta e diffusa, la violazione dei principi del diritto umanitario internazionale e, nella maggior parte dei casi, con un’impossibilità sanzionatoria da parte della comunità internazionale e delle entità specificamente preposte a tal fine.
Con questo appunto tentiamo di mettere in fila, con una certa logicità, informazioni e un nostro punto di vista su quello che abbiamo capito di questa complicata situazione. Sentendo testimoni presenti nell’area e confrontando le posizioni dei diversi stakeholders direttamente coinvolti.
Il mosaico regionale e i soggetti che lo compongono sono tanti e difficilmente collocabili in una visione di strategie o posizionamenti strategici definiti. Prevalgono le alleanze tattiche che vanno sempre aggiornate e riviste in un permanente cambiamento di contesto, tentando, come in una interminabile partita a scacchi, di prevedere le possibili mosse future.
Non è facile identificare gli interessi geopolitici ed economici immediati che hanno nella regione USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna (e Unione Europea) e collegare questi interessi alle mire egemoniche regionali che tentano di giocare l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Iran con i loro alleati tattici o strategici.
Proviamo a identificare le questioni rilevanti che caratterizzano la congiuntura attuale: la sconfitta dell’ISIS e l’abbandono dei territori appartenenti alla Siria e all’Iraq che Dāʿish aveva occupato ripropone la questione irrisolta del controllo e appartenenza di vasti territori e come configurare l’esistenza degli stati e delle nazionalità (con le diverse etnie presenti) che rimettono in discussione le divisioni fatte dall’intesa anglo-francese di Sykes-Picot del 1916.
Fallito l’obiettivo di destituire Assad, la Siria è oggi un agglomerato di realtà e forze che interessa un po’ a tutti: dall’asse russo-iraniano e la Turchia (Gruppo di Astana), agli Stati Uniti e i suoi alleati (Arabia Saudita e Israele tra i più importanti). La lunga e difficile mediazione portata avanti per anni dall’ONU non ha portato finora a un accordo definitivo. Si ricomincia con la convocazione a Ginevra, per il prossimo 30 ottobre, del primo incontro del comitato costituzionale siriano, sostenuto dall’Onu, e di cui fanno parte, dopo difficili e lunghe trattative, 50 membri del governo, 50 delle opposizioni e 50 “indipendenti”.
Il 6 ottobre 2019 il Presidente Trump annuncia il ritiro del contingente americano dal nordest della Siria ma tale annuncio è poi smentito da altre fonti governative. La notizia del ritiro – apparentemente deciso per permettere alla Turchia di invadere il nordest della Siria, cacciare i curdi siriani e creare una specie di “zona cuscinetto” di sicurezza al confine turco siriano – è stata accolta da moltissime critiche. Persino esponenti del Partito Repubblicano e membri dello stesso governo statunitense hanno accusato il presidente di «tradimento» nei confronti dei curdi siriani, che per anni avevano aiutato gli Stati Uniti nella guerra contro l’ISIS. Nonostante il mezzo passo indietro del dipartimento della Difesa, ha scritto il New York Times, ora per gli Stati Uniti sarà difficile opporsi all’offensiva militare turca in Siria, soprattutto considerato che la Turchia è un alleato importante degli americani e un importante paese membro della NATO.
In seguito al ritiro degli americani in tre località molto importanti per la Turchia e cioè Mambye e Al Ararab e Kobane ci sono le truppe di Assad e le forze russe. Rimane il quesito se la Siria combatterà I curdi come gli chiede di fare la Turchia o se farà un accordo con le milizie curde in chiave antiturca.
La caratteristica della geopolitica turca è questa oscillazione costante fra alleanza Americana e quella Russa: operazione comunque molto rischiosa. La Turchia rischia di rimanere schiacciata fra le due potenze perché se Putin e Trump chiudono un accordo sulla Siria, la Turchia rischia di rimanere impantanata. Ed è forse questo il vero obiettivo di Trump: far entrare la Turchia nella Guerra vera in Siria e lasciarla impantanare li.
La Turchia mantiene rapporti di cooperazione con la Russia che prevedono la fornitura di missili ss400, di aerei da guerra SU 57, dopo esclusione da parte degli Usa dal programma degli F35 e la costruzione di un nuovo oleodotto.
Il 22 ottobre 2019 a Sochi i russi e i turchi fanno un accordo in cui “È stato stabilito, nel memorandum d’intesa siglato dai due capi di Stato, che Turchia e Russia condurranno pattugliamenti congiunti fino a 10 km entro il territorio siriano oltre il confine turco, a est e ovest dell’area in cui è stata condotta l’operazione turca nel nord della Siria, esclusa Qamishli, principale centro curdo nell’area. Lo status quo stabilito nell’area dell’attuale Operazione Fonte di Pace tra Tal Abyad e Ras al Ayn, con una profondità di 32 km, verrà preservato”.
È quanto chiedeva Erdogan ed è quanto ha ottenuto da Putin. A sua volta il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha affermato che le delegazioni dei due Paesi hanno raggiunto un’intesa affinché la polizia militare russa e le forze governative siriane restino al di fuori della zona dell’operazione militare turca in Siria settentrionale.
La Russia ha fatto della Siria il teatro del suo ritorno allo status di potenza di primo piano, approfittando del disimpegno statunitense cominciato da Barack Obama nel 2013. All’epoca la Russia e l’Iran, riempiendo immediatamente il vuoto creato dall’allontanamento statunitense, erano corsi in soccorso di Assad, con pesanti conseguenze dal punto di vista umanitario e politico. Ora Putin approfitta nuovamente dell’eclissi di Washington per affermare il suo paese come unica potenza straniera presente sul campo e capace di dialogare con tutti gli attori coinvolti.
Il presidente siriano Assad visitando il nord del paese ha affermato che “Erdogan è un ladro. Ci ha rubato le fabbriche, il grano e il petrolio, e oggi sta rubando la terra”. Parole di fuoco, propositi bellicosi. Tutto, però, prima del patto di Sochi. Ora il “ladro di Ankara” diventerà un “alleato”, per quanto scomodo, e odiato.
Si fa certamente uno sbaglio quando si parla dei curdi come se fossero un’unica forza omogenea ed unitaria. I curdi sono un gruppo etnico indoeuropeo di circa 40 milioni di persone che abitano in un territorio diviso negli attuali stati di Iran, Iraq, Siria, Turchia e in misura minore Armenia. Piccole comunità curde sono presenti anche in Libano, Giordania, Georgia, Azerbaigian, Afghanistan e Pakistan.
Sono politicamente divisi principalmente fra quelli che fanno riferimento al PKK (Partito del popolo curdo, il cui leader Abdullah Öcalan è in carcere in Turchia), l’Unione Comunità curda (curdi di Siria, Turchia e parte di Iran) e i curdi del Partito Democratico del Kurdistan iracheno (PDK) il di Mesûd Barzanî (ex presidente della regione autonoma curda dell’Iraq del nord).
Nel nord della Siria (nella regione denominata Rojava/Kurdistan occidentale) si trovano le milizie curde dello YPG (Yekîneyên Parastina Gel, che in curdo vuol dire “Unità di autodifesa popolare”), alleate degli americani nel combattere l’ISIS ma considerate un gruppo terrorista dal governo turco.
È interessante notare che ci sono stati interventi militari turchi nel Kurdistan del Nord (Iraq settentrionale) e che ci sono anche 16 basi militari turche ma questo non ha creato tutto il clamore dell’intervento turco nel Rojava. Questo perchè i curdi dell’Iraq hanno invitato loro i turchi ad insidiarsi nei propri territori in quanto “i turchi combattono il loro stesso nemico che è il PKK in Turchia e lo YPG in Rojava.
Prima di questa Guerra dell’ottobre 2019, dobbiamo ricordare che la Turchia è già presente in Siria grazie a un accordo con la Russia erano già state condotte tre azioni militari sempre ad ovest dell’Eufrate:
- Operazione Scudo dell’Eufrate che ha portato la Turchia ad occupare le zone di Jarablus, Azaze e Al Bab;
- operazione AFRIN che ha portato ad occupare proprio il cantone di Afrin nell’ovest siriano;
- operazione IDLIB (dopo l’accordo di Astana) dove la Turchia ha dodici punti di osservazione militare.
Queste operazioni si giustificano dalla necessità turca di ricollocare I profughi siriani (circa 4 milioni) rifugiati in Turchia e dimostrare a Usa e Russia che la Turchia è in grado da sola di poter cambiare gli equilibri nell’area per garantire la sua sicurezza.
Questo fa prevedere che questa nuova azione turca in Siria non è da considerarsi provvisoria. Dopo l’Operazione Eufrate, finita due anni fa i turchi non si sono ritirati dalla Siria ma anzi nel Rojava sono pronti dei progetti di costruzione di almeno 4 villaggi da circa 250 mila persone per ospitare almeno 1 milione di profughi siriani rifugiati in terra turca. La ricollocazione di questi profughi fuori dalla Turchia è al vertice dell’agenda politica di Erdogan. Fino a che questi profughi non saranno ricollocati non si fermerà la sua azione. Erdogan ha perso le elezioni amministrative ad Ankara e una delle cause è la numerosa presenza dei profughi siriani in Turchia. Quanto ai curdi siriani, potranno essere riassorbiti nella Siria di Assad. Ma non sarà facile riparlare di autonomia per la Rojava. Spazzata via, prima dal tradimento americano e ora dal “patto di Sochi”.
Ampliando l’analisi a un orizzonte più vasto e considerando gli interessi e le posizioni di altri attori coinvolti siamo obbligati a mettere ancora elementi che rendono più complesso il quadro generale:
Vi è una oggettiva alleanza tra Turchia e Qatar basata nella comune vicinanza al movimento dei Fratelli Musulmani e cercano oggi un accordo con l’Iran. Da ciò si deve dedurre che non esista un blocco sunnita unito contro quello sciita. Gli interessi della Turchia, oggi, sono più vicini all’Iran sciita che non all’Arabia Saudita, sunnita (in versione Waabita).
La Fratellanza Musulmana gode infatti del supporto della Turchia ma anche dell’Iran e del Qatar. Quando Morsi fu eletto Presidente dell’Egitto il primo viaggio non lo fa in Turchia ma in Iran. E va tenuto presente che il golpe militare che ha portato al potere il generale Al Sissi è stato appoggiato e finanziato dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti con il beneplacito degli USA proprio contro i Fratelli Musulmani. E questo conflitto riguarda anche la guerra in Libia e in Sudan dove sono gli stessi schieramenti contrapposti con diversi alleati locali.
Il Qatar ha anche forti interessi economici comuni con l’Iran per lo sfruttamento del più grande giacimento di gas esistente al mondo “South Pars/North Dome–gas condensate field’ che si trova nel golfo persico e solo questi due paesi hanno la possibilità di estrarlo.
Il Qatar nel 2000 ha proposto ai suoi stretti alleati (Arabia Saudita e Turchia) la costruzione un gasdotto di 1500 km attraverso l’Arabia Saudita, Giordania, Siria per arrivare in Turchia e in Europa verso la Bulgaria o anche attraverso il Mediterraneo. Questa operazione avrebbe legato il Qatar direttamente ai mercati europei dell’energia tramite terminali di distribuzione in Turchia, garantendo a quest’ultima enormi ricavi dalle tasse di transito. Il gasdotto Qatar / Turchia avrebbe garantito quindi ai paesi sunniti la supremazia totale del Golfo Persico per i mercati del gas naturale mondiale e rafforzato il Qatar, più stretto alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo. Non dimentichiamo che il Qatar ospita due enormi basi militari americane ed è sede per il Medio Oriente del Comando Centrale degli Stati Uniti.
Un problema si pone quando il Governo siriano di Bashar Al Assad non concede il permesso di passaggio del gasdotto sul proprio territorio. Il rifiuto nasce da un posizionamento storico del Governo Siriano di alleanza con l’Iran (sciita) e con la Russia. Ed è questa una delle cause principale della guerra in Siria.
Conflitto che si estende violentemente anche in Yemen e per la prima volta impianti petroliferi di Abqaiq e Kharais in Arabia Saudita sono attaccati il 14 settembre 2019 con droni da parte degli Hutu yemeniti (alleati dell’Iran).
La guerra in Yemen coinvolge direttamente l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) che sono Il vero centro di potere strategico. La Guerra è finanziata dai sauditi ma è diretta da EAU, che hanno raggiunto il proprio obiettivo di controllare i maggiori porti del golfo: Aden e l’isola di Socotra (in Yemen) e la costa somala. Importante è il ruolo che ha il Principe degli Emirati Mohammed Bin Zayed che stranamente sta trattando una tregua con gli Hutu (milizia sciita yemenita) che sono presenti lungo tutto il confine fra Yemen e Arabia Saudita mentre gli EAU non hanno nessun confine con lo Yemen.
Quando alcune petroliere vengono colpite nel golfo di Hormoz è aumentata la preoccupazione di un’estensione incontrollata del conflitto mettendo in crisi la produzione petrolifera della regione e il governo saudita, tramite quello iracheno, ha chiesto una tregua all’Iran.
L’obiettivo principale degli USA è quello di evitare che in Medio Oriente emerga un attore egemone ed evitare che le due potenze non arabe del mondo musulmano, Turchia e Iran, si spartiscano la sfera di potere su tutta l’area. Restano a guardare Egitto, Arabia saudita ed Emirati arabi, la cui influenza nel conflitto si vede improvvisamente ridotta. Senza dubbio, loro si sentono traditi dagli Americani, per non averli neppure sentiti. E forse quello che di meno intelligente c’è in questo “disegno”, a cui Washington non è estranea, è proprio questo: come una coperta troppo corta, l’intelligenza americana ha lasciato scoperti e preoccupati i tradizionali alleati e amici, tutti in un modo o nell’altro allarmati sia dal “tradimento statunitense” sia dall’avventurismo turco.
Anche Israele ha criticato la manovra Turca di questi giorni in quanto la Turchia è adesso il vero baluardo dell’espansione Iraniana nell’area. Israele si ritrova con l’unico soggetto regionale non ostile, l’entità curda appunto, alla mercé degli ex amici turchi, la cui crescente avversione verso lo Stato ebraico non è più nemmeno nascosta.
Resta irrisolto il problema della presenza dei combattenti dell’ISIS. Sta infatti crescendo molto il numero degli attori che sono interessati ad una rinascita dell’ISIS anche se con sigle e modalità differenti: la Turchia per legittimare il suo stare e magari ampliare l’area di azione nella Siria; Assad per cercare di riconquistare il terreno perso nel territorio siriano; i curdi affinché possano così ridiventare attori attivi e rilegittimati; gli Americani per dimostrare che la loro presenza è fondamentale per la sicurezza globale.
Solo il tempo ci dirà come si evolve una situazione che è sempre difficile da decifrare ma che merita di essere sempre studiata per l’importanza che ha nell’agenda globale.