I libanesi hanno sempre dimostrato una straordinaria capacità di recupero in tempi di crisi. Ce ne sono stati molti, dalla guerra civile negli anni ‘70 e ‘80 ai conflitti con Israele nel 1978, 1982 e 2006. Quella resilienza si basava sul loro talento imprenditoriale in patria e in una diaspora operosa in tutti gli angoli del globo.
Era tutto vero, fino ad oggi. La crisi economica e finanziaria, che sta montando da diversi anni e che è quasi interamente autoinflitta, ha messo a dura prova questa resilienza. Dall’ottobre 2019, il collasso interno del Libano sembra inarrestabile. Il Paese ha toccato il fondo e sta ancora scavando. Anche le sanzioni finanziarie statunitensi, che hanno lo scopo di punire Hezbollah, hanno ulteriormente complicato la crisi, provocata da una classe politica e tecnocratica corrotta che tiene il Paese in mano.
Il suicidio del sistema finanziario e bancario sta trascinando nel baratro l’intera popolazione del Paese, che ha visto congelare i propri depositi e conti correnti. Sembra un paradosso, ma nonostante undici anni di guerra e un lungo embargo internazionale, da questo punto di vista la situazione a Damasco oggi sembra migliore che a Beirut.
Negli ultimi quindici anni, inoltre, l’impegno della comunità internazionale in Libano è progressivamente passato dal coinvolgimento attivo, come testimoniato durante la guerra del 2006, alla rassegnazione senza speranza.
Giorno dopo giorno, la crisi economica si aggrava. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, il tasso di disoccupazione ora supera il 40 per cento, mentre i tassi di povertà multidimensionale sono raddoppiati tra il 2019 e il 2020, passando dal 42 per cento all’82 per cento.
Eppure, dove ci aspetterebbe di trovare frenesia e rabbia, la compagna delle giornate è invece l’attesa, in questo caso per le elezioni politiche che si dovrebbero tenere a marzo 2022. Il condizionale è d’obbligo, perché sono molte le parti convinte che sia imminente un rinvio di qualche mese, un rinvio che non farà che prolungare l’attesa.
Ma oltre al voto, si attende anche l’esito del piano di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale, un piano che dovrebbe aiutare il Paese nel suo viaggio verso la ripresa economica. Le ultime statistiche delle Nazioni Unite mostrano che l’80% della popolazione è sprofondata al di sotto della soglia di povertà. Mentre i sussidi ai medicinali sono stati parzialmente rimossi e la crisi energetica persiste, la valuta locale continua a deprezzarsi a ritmo serrato: la scorsa settimana, infatti, la Lira libanese ha toccato un nuovo minimo, scambiando a 25.000 LBP per ogni dollaro. In attesa di un nuovo record negativo.
Ma durante questa attesa, sulla testa dei libanesi qualcosa si muove e non sembrano scenari positivi.
Negli ultimi decenni, l’Arabia Saudita aveva investito miliardi di dollari in Libano, puntando soprattutto sulla creazione di un turismo di lusso e sul rafforzamento della propria posizione come punto di riferimento dei sunniti, tanto in funziona anti-turca che in proiezione anti-iraniana. Mentre la crisi economica si stava per affacciare su Beirut, l’allora primo ministro libanese Saad Hariri aveva annunciato decine di progetti di sviluppo per il Paese. Ma la situazione diplomatica stava già cambiando da alcuni anni, almeno dall’elezione di Michel Aoun a Presidente del Libano, avvenuta nel 2016 con il decisivo supporto dei partiti sciiti, in particolare Hezbollah.
Da allora, il rapporto tra Beirut e Riyadh è costantemente peggiorato, fino ad arrivare a un passo dalla guerra aperta, con l’interruzione delle relazioni diplomatiche bilaterali, il blocco delle importazioni libanesi e la minaccia saudita di interrompere i voli da e per il Libano. Questa spirale non è ancora interrotta e i colpi continuano ad arrivare: recentemente, Riyadh ha minacciato di impedire trasferimenti finanziari verso Beirut, e allo stesso tempo sta spingendo per la creazione di una nuova lobby araba, fedele alla dinastia al-Saud, con lo scopo di aumentare ulteriormente la pressione sul Libano e di isolare il Paese dal resto del cosiddetto “mondo arabo”.
Tuttavia, queste sono soltanto la parte ufficiale delle misure saudite nei confronti del LIbano, mentre quelle più importanti avvengono in forma segreta. Di certo c’è soltanto il tentativo dell’Arabia Saudita di far saltare la rete di equilibri su cui si regge il Libano, fomentando quindi un’escalation di conflitti settari oggi latenti, ma che secondo diverse fonti potrebbero esplodere sfruttando falle e vulnerabilità storiche del sistema su cui si basano la società e la politica di Beirut.
Il LIbano di oggi non si può permettere crescenti tensioni esterne, perché il collasso economico del paese ha causato diserzioni di massa tra militari e servizi di sicurezza.
Le stime indicano che diverse migliaia di lavoratori abbiano abbandonato il loro servizio perché la Lira libanese ha perso così tanto valore che oggi lo stipendio di un militare non supera i 65 dollari statunitensi al mese. Se anche queste istituzioni, su cui il sistema libanese ha fatto grande affidamento per tenere in piedi uno Stato fragile, sono vicine al collasso, è legittimo chiedersi come potranno essere affrontate le prossime turbolenze, non ultima proprio l’elezione tanto attesa per il rinnovo del Parlamento. Purtroppo, l’attesa è ancora l’unica azione possibile.
A rafforzare questo immobilismo è inoltre la posizione di tutti gli altri Paesi che hanno storicamente interessi nell’area, dall’Iran agli altri Paesi arabi, fino alla Turchia, che mira a sostituire l’Arabia Saudita come “benefattore dei sunniti”. Per tutti loro, l’impressione è che la scelta sia ormai quella di attendere, o magari accelerare delicatamente, il crollo del Libano e quindi iniziare a ricostruire da zero. È una posizione cinica, ma è innegabile che il comportamento irresponsabile dei partiti di governo libanesi, non ultima la loro riluttanza ad aiutare gli altri ad aiutare il Libano, abbia favorito questa visione disperata.
Nel frattempo, le crescenti tensioni tra Israele e Iran fanno sentire i loro effetti anche nella regione, tanto in Libano quanto in Siria. A settembre, il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, si era recato in visita in Bahrein insieme ai rappresentanti della Difesa israeliana e ad alcuni generali statunitensi, proprio per affermare la presenza di Tel Aviv anche nelle acque del Golfo Persico. In questo nuovo scenario, Teheran si sente sempre più accerchiata, al punto da arrivare a minacciare uno storico alleato di Tel Aviv, l’Azerbaigian, attraverso un’esercitazione avvenuta all’inizio di ottobre al confine tra i due paesi.
Alla luce di queste tensioni, si sono fatte ancora più frequenti le azioni dell’aviazione israeliana, che sistematicamente bombarda infrastrutture strategiche dei due principali alleati dell’Iran in Medio oriente, Assad ed Hezbollah, spesso utilizzando come scudi voli civili per evitare l’intervento della difesa aerea siriana.
Tuttavia, le tensioni tra Beirut e Tel Aviv non si esauriscono qui, ma riguardano un nodo storico: i confini terrestri e marittimi.
Dopo il ritiro israeliano dal Libano meridionale, avvenuto nel 2000 dopo un’occupazione durata 22 anni, le Nazioni Unite avevano tracciato la cosiddetta “Linea blu”, una linea di separazione tra i belligeranti non formalmente riconosciuta dal Libano come confine meridionale. Il motivo è semplice nella sua complessità: siccome Beirut non riconosce lo stato di Israele, non ha mai firmato accordi di confine con Tel Aviv, rendendo la “Linea blu” niente più di un confine provvisorio. Questa natura temporanea scatena da tempo dispute tra Israele e Libano sulla definizione delle rispettive zone economiche esclusive nel Mediterraneo, al fine di definire chi abbia il diritto a sfruttare i ricchissimi giacimenti di petrolio e di gas che si trovano nei fondali marini. Nonostante la mediazione statunitense dell’ultimo anno, non si è mai arrivati a una soluzione, né a significativi passi avanti o al semplice rispetto degli accordi. La trattativa, infatti, dovrebbe impedire ai due paesi di sfruttare i giacimenti in attesa di un accordo, ma in realtà Israele continua a trivellare, scatenando l’ira di Hezbollah che lo scorso 22 ottobre ha minacciato Tel Aviv. La risposta israeliana non si è fatta attendere, con la ripresa dei bombardamenti sulle postazioni di Hezbollah in Siria, Paese di cui Tel Aviv occupa da quarant’anni un’area, le alture del Golan, oltre ad avere un ruolo attivo nel conflitto scoppiato nel 2011 attraverso il finanziamento di gruppi ribelli e frequenti incursioni aeree.
Tornando al punto di partenza, il cuore della politica libanese negli ultimi quindici anni si è retta su un patto stipulato tra l’ex premier Saad Hariri e il governatore della Banca Centrale del Libano, Riad Salameh, che ha gestito le risorse e le finanze del Paese in modo incauto.
Gli schemi Ponzi che hanno arricchito l’élite politica, hanno spinto il Libano sull’orlo del default, per poi farlo precipitare in una crisi di cui non si vede via d’uscita. Parallelamente, Hezbollah ha lasciato ad Hariri e ai suoi partner carta bianca per governare il Paese, assumendo in cambio di questo passo indietro un controllo sempre maggiore delle politiche di sicurezza. Nonostante i numerosi fallimenti dei vari esecutivi che si sono succeduti in questi quindici anni, la comunità sunnita, chiamata costituzionalmente a nominare il primo ministro, non ha mai voluto esprimere un’alternativa ad Hariri.
Tuttavia, se da un lato i principali colpevoli del disastro libanese vanno individuati nella classe dirigente del Paese e nei vicini interessati a sfruttare la crisi, va detto che neppure la comunità internazionale può dirsi esente da responsabilità.
Le cancellerie occidentali hanno sempre preferito interagire con un solo interlocutore per ogni confessione libanese, ritrovandosi quindi sempre di fronte Hariri.
In questo quadro di sostanziale immobilismo, è la Francia a muoversi in modo più deciso, senza troppo coordinamento con il resto della comunità internazionale. Parigi, che sin dall’esplosione al porto di Beirut pone come condizione per un reale sostegno occidentale il superamento della crisi politica, ha avviato una mediazione tra Arabia Saudita e Libano per riparare le relazioni tese tra i due Paesi a seguito dei commenti dell’ex ministro libanese dell’Informazione, George Kordahi, sullo Yemen. In cambio di questa attività diplomatica, la Francia ha chiesto e ottenuto le dimissioni del ministro.
Secondo l’agenzia di stampa saudita, Spa, il presidente francese Emmanuel Macron e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman sono “determinati a trovare meccanismi appropriati in collaborazione con Stati amici per alleviare le sofferenze del popolo libanese” e “hanno concordato di istituire un meccanismo franco-saudita per l’assistenza umanitaria all’interno di un quadro che garantisca la completa trasparenza”.
Dietro a queste parole concilianti se ne trovano di meno amichevoli, secondo cui le armi in Libano devono essere limitate solo alle “istituzioni statali legittime” e “il Libano non dovrebbe essere un trampolino di lancio per atti terroristici” e “traffico di droga”. Si tratta di un colpo a Hezbollah, che il Regno Saudita considera una organizzazione terroristica e una minaccia alla sicurezza dell’area. Nessuna menzione, naturalmente, per chi quelle armi le fabbrica e le vende.
Di fronte a un quadro in cui nessun attore istituzionale sembra essere in grado di invertire la rotta, quali sono le possibili azioni? Come probabilmente potrebbe ribattere un cittadino libanese, per ora l’unica strada sembra quella di attendere, anche se il timore è che dietro l’angolo si possa nascondere una nuova crisi.