Libano, in piazza per una nuova stagione?

Spesso dimenticato, il Libano è un Paese che più che stabile andrebbe definito paralizzato. Chi scende in piazza a Beirut e in tutto il Paese chiede un cambio radicale

di Marco Magnanopubblicato su Riforma.it

Negli ultimi anni, sin dallo scoppio e il protrarsi della guerra siriana, quanto accade in Libano è sempre stato letto attraverso la lente della crisi nel Paese confinante.

Tuttavia, negli ultimi giorni Beirut sembra aver acquisito una propria centralità, o quantomeno una propria autonomia rispetto ai fatti siriani. Da giovedì 17 ottobre, centinaia di migliaia di libanesi sono scesi nelle strade di tutte le città, grandi e piccole, per manifestare contro il sistema politico, ritenuto corrotto e colpevole del fallimento economico sempre più evidente.

In realtà, apparentemente le piazze si erano riempite a causa di una nuova tassa sull’utilizzo della più diffusa applicazione di messaggistica istantanea, WhatsApp, ma in meno di 24 ore la protesta si è sviluppata e ampliata, arrivando a chiedere il rovesciamento del vigente regime politico, attirandosi quindi la reazione del governo.

Naturalmente, a quel punto la revoca della tassa è risultata completamente inutile: la situazione si è intensificata rapidamente e l’esercito è intervenuto contro i sit-in, arrivando fino allo scontro con i manifestanti e al danneggiamento di proprietà pubbliche e private, tra cui l’edificio del Consiglio di Stato nel centro di Beirut.

Per comprendere, almeno in parte, l’incapacità della politica libanese di rispondere a qualsiasi tipo di richiesta, tanto popolare quanto politica, è necessario fare un passo indietro. Il sistema politico libanese è in gran parte congelato sin dal 1992, quando l’imprenditore Rafik Hariri, vicino all’Arabia Saudita e agli Stati Uniti, divenne primo ministro in seguito agli “accordi di Ta’if”. Da allora, la leadership dei partiti è diventata di fatto ereditaria, e il sistema è rimasto intrappolato nel regime di ripartizione quote tra le varie comunità politiche, sociali e religiose.

Secondo il modello istituito allora, il presidente della Repubblica, il capo dell’esercito e quello della Banca centrale appartengono alla comunità cristiano-maronita; il primo ministro è sunnita, mentre il presidente del parlamento è sciita, indipendentemente dagli equilibri di partito. Inoltre, l’accordo di Ta’if prevedeva che ci doveva essere un Senato guidato da un presidente druso, ma non è mai stato istituito. Nell’ottica di questo equilibrio, i ministri devono essere distribuiti tra le 18 diverse comunità religiose, e allo stesso modo devono essere rappresentate nella Camera dei Deputati.

Nato con l’intento di spegnere i conflitti e di garantire stabilità, il sistema politico figlio degli accordi di Ta’if ha finito per dividere i libanesi, alimentando e facendo crescere i rancori. La diversità religiosa, culturale e politica libanese potrebbe rappresentare una ricchezza enorme sia per il Paese sia per l’intera area, ma a causa del modello di Ta’if è diventata un peso, causa e amplificatore dei problemi e delle crisi che il Libano affronta ogni giorno.

Il presidente della Repubblica, il cristiano maronita Michel Aoun, ha dichiarato di comprendere le richieste dei manifestanti e di aver avviato misure per porre rimedio alla crisi nel Paese, mentre il Primo Ministro, Saad Hariri, figlio di Rafik, ha reagito cercando di assumere un ruolo di leader che probabilmente non gli è mai appartenuto. Dopo aver imposto a se stesso e ai partner di governo una scadenza di 72 ore entro cui approvare alcune riforme, nella sera di lunedì 21 ottobre è stato annunciato un taglio del 50% degli stipendi percepiti dai membri del governo e dai parlamentari, la riduzione dei benefici garantiti a diversi funzionari statali e l’approvazione del bilancio per il 2020 con un deficit dello 0,6 per cento e senza l’introduzione di nuove tasse.

Il problema, però, è che tutto questo potrebbe non bastare, perché la crisi economica in Libano non è nuova, ma è iniziata molti anni fa, a seguito dell’accumulo di debiti presi in prestito dal padre dell’attuale Primo Ministro, che ammonta a oltre 86 miliardi di dollari e che tende ad aumentare. Oggi il Libano, con un rapporto debito/PIL pari al 150% e una grande dipendenza dalle rimesse dei libanesi all’estero, è considerato uno dei paesi con il più alto debito al mondo, aggravato dalla corruzione sistematica.

Sul banco degli imputati, i manifestanti hanno portato prima di tutto chi oggi dice di voler risolvere i problemi, ovvero Hariri, che con la sua famiglia e le persone a lui vicine monopolizza quote importanti della ricchezza e degli investimenti del Paese. In un luogo come il Libano, in cui non sono garantite neppure la fornitura di acqua e corrente elettrica, tenute in ostaggio da un mercato secondario ai limiti del legale, una simile concentrazione di benessere sembra non essere più accettabile, soprattutto perché in gran parte finanziata con tasse a cui non corrisponde alcun servizio.

Chi scende in piazza oggi non lo fa per fame, come poteva essere ritenuto nel 2005, ai tempi della cosiddetta “rivoluzione del riso” seguita all’assassinio di Rafik Hariri, ma perché non ha nessuna prospettiva e non vede nessun orizzonte. La stragrande maggioranza dei manifestanti, infatti, proviene da quella che spesso viene chiamata classe media, ma che potrebbe essere definita “ciò che rimane della classe media”, molto esposta alla caduta verso la povertà.

Anche per questo, la rivolta dell’ottobre 2019 colpisce per ampiezza e inclusività, ma potrebbe essere ricordata anche per efficacia, perché la classe media è ritenuta la spina dorsale delle società libanese e sa benissimo di esserlo, o almeno di volerlo essere. Dall’altra parte, lo Stato libanese si è scoperto ancora più piegato su posizioni settarie e bigotte rispetto a quanto si potesse immaginare prima di metterlo alla prova, e probabilmente il conflitto non finirà fino a quando chi oggi scende in piazza non avrà una risposta dettata dalla legge anziché dalle convenienze di famiglie e correnti.

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