di Marco Pasquini, direttore di Armadilla
Da ormai 13 giorni la maggior parte dei cittadini libanesi è scesa in piazza per chiedere il cambio radicale contro la corruzione della classe politica al potere sul Sistema Costituzionale nato con gli Accordi di Taif del 1989.
Negli ultimi anni, sin dallo scoppio e il protrarsi della guerra siriana, quanto accade in Libano è sempre stato letto attraverso la lente della crisi nel Paese confinante.
Tuttavia, negli ultimi giorni il Libano sembra aver acquisito una propria centralità, o quantomeno una propria autonomia rispetto ai fatti siriani. Da giovedì 17 ottobre, centinaia di migliaia di libanesi (qualcuno parla di un terzo della popolazione) sono scesi nelle strade di tutte le città, grandi e piccole, per manifestare contro il sistema politico, ritenuto corrotto e colpevole del fallimento economico sempre più evidente.
Questo movimento si chiama “i Haqqi (Per i miei diritti)”.
Chi scende in piazza oggi non lo fa per fame, come poteva essere ritenuto nel 2005, ai tempi della cosiddetta “rivoluzione del riso” seguita all’assassinio di Rafik Hariri, ma perché non ha nessuna prospettiva e non vede nessun orizzonte. La stragrande maggioranza dei manifestanti, infatti, proviene da quella che spesso viene chiamata classe media, ma che potrebbe essere definita “ciò che rimane della classe media”, molto esposta alla caduta verso la povertà. Anche per questo, la rivolta dell’ottobre 2019 colpisce per ampiezza e inclusività, ma potrebbe essere ricordata anche per efficacia, perché la classe media è ritenuta la spina dorsale delle società libanese e sa benissimo di esserlo, o almeno di volerlo essere. Dall’altra parte, lo Stato libanese si è scoperto ancora più piegato su posizioni settarie e bigotte rispetto a quanto si potesse immaginare prima di metterlo alla prova, e probabilmente il conflitto non finirà fino a quando chi oggi scende in piazza non avrà una risposta dettata dalla legge anziché dalle convenienze di famiglie e correnti.
Ma non possiamo però sottolineare che gli stessi manifestanti comunque appartengono tutti, nessuno escluso, a gruppi di formazione religiosa.
Questo sistema di condivisione del potere ha comunque permesso ai cittadini libanesi (oggi in piazza) di non pagare le imposte dirette per incapacità o volontà del Governo; tutti i 18 gruppi religiosi sono rappresentati in Parlamento e quindi tutti questi manifestanti sono a loro volta rappresentati.
La società civile ha ragione a protestare contro gli aumenti di qualsiasi servizio tramite le imposte indirette, ma queste sono anche le uniche tasse che in Libano si pagano.
Quello che colpisce in questi giorni di protesta non è tanto la famosa piazza dei Martiri e Downtown (Beirut) ricolme di gente, ma piuttosto le manifestazioni a Tripoli, Sidone, Tiro e Nabatiye, situazioni fino a ieri impensabili. Questo ci fa capire che qualcosa si è rotto, o forse incrinato, nel controllo del territorio che i gruppi religiosi hanno sempre gestito. Mai fino ad ora si era verificata alcuna manifestazione se non innescata, gestita e diretta dalle componenti politiche religiose del territorio.
L’ultimo rapporto dell’Undp, l’Agenzia Onu per lo sviluppo umano, riporta che, per ineguaglianza dei redditi, il Libano è al 129° posto su 141 paesi. L’1% più ricco possiede il 25% dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il 20% di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1% del totale dei depositi nelle banche libanesi.
Almeno un milione, dei sei milioni di libanesi, è povero. L’arrivo in questi anni di un milione e mezzo di rifugiati siriani ha spinto nella povertà altri 200.000 libanesi: offrendosi per salari inferiori, i profughi hanno sottratto lavoro non specializzato alla fascia sociale libanese più debole. Non dimentichiamo mai, inoltre, la componente storica di profughi palestinesi e di Iracheni della seconda Guerra.
Da alcuni dati pubblicati dal Sole 24 Ore:
- La Banca Mondiale ha stanziato 100 milioni di dollari per il problema, ma sono quattro soldi di fronte al pericolo destabilizzante del conflitto siriano ai confini e all’ondata dei profughi: secondo gli esperti, quando questi ultimi superano il 25% della popolazione ospitante, gli equilibri interni di un paese sono a rischio.
- Eppure, il piccolo Libano ha 142 istituti bancari, contati dalla Commissione governativa per il controllo sul credito. Il profitto totale delle prime 14 banche equivale al 4,5% del Pil nazionale. Come unità di misura, le più importanti banche in Gran Bretagna arrivano all’1%, in Germania allo 0,2%. Fra alti e bassi dovuti alla geopolitica regionale, e non alla disponibilità di contante, l’industria immobiliare locale ha sempre trovato nelle banche libanesi creditori generosi ma contemporaneamente attenti a non creare bolle speculative come nel Golfo.
- Lo Stato e il suo braccio operativo, il governo, vivono di debito. Il deficit di bilancio è all’8% del Pil, il debito pubblico al 152,8%
- In Libano non si produce nulla mentre si importa tutto, e tutto si importa in dollari.
Le dimissioni di ieri, 29 ottobre, del premier Saad Hariri sono solo un’altra tappa del disastro libanese, forse previste e forse dovute. Queste dimissioni non avevano trovato un accordo fra i principali alleati di Governo e padrini del paese: il presidente cristiano maronita Michel Aoun, lo speaker sciita di Amal, Nabih Berri, e di Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah.
Le dimissioni di Hariri segnano indubbiamente un punto di svolta, ma adesso è necessario capire cosa vogliano realmente gli altri principali padrini della politica libanese, compreso Geagea, leader del Lebanese Forces, e Walid Jumblad, re e padrone della componente drusa. Questi ultimi, sin dalle prime ore hanno cavalcato la protesta, ma sono poi proprio i due leader che non vogliono nessun cambiamento, essendo parte integrante e gestori del grande business dei generatori e della raccolta dei riifuti, solo per fare un esempio.
Qualche organo di informazione vicino al presidente Aoun e agli Hezbollah ha dichiarato che qualche forza esterna al Libano guiderebbe tale protesta – e il riferimento è chiaramente a Israele e Arabia Saudita – alimentando a torto o ragione una radicalizzazione sempre più pericolosa per un paese cosi fragile come il Libano. Forse qualche verità esiste.
Cosa farà adesso il presidente Aoun:
- Se le dimissioni di Hariri sono concertate fra le parti politiche, allora si potrebbe nominare un tecnico sostenuto dalle principali forze politiche (un cosiddetto “Governo del Presidente”) e formare un nuovo governo che dovrebbe introdurre le nuove riforme, andare a nuove elezioni per sedare quindi le manifestazioni della piazza: esiste in Libano un tecnico non appartenente ad una delle 18 rappresentazioni religiose?
- Dare un nuovo incarico ad Hariri (e nella tempistica libanese potrebbe prendere un lunghissimo tempo) per formare lui stesso un nuovo governo di tecnici sopra le parti. In questo caso non si parlerebbe di nuove elezioni ma di un Governo tecnico sostenuto dalla forze politiche oggi rappresentate in Parlamento.
In questa situazione e’ necessario sottolineare la sempre maggiore forza che il Movimento Hezbollah sta assumendo nel paese. Da forza militare partigiana (come loro si definiscono), ma sicuramente radicalmente sciita, con la Guerra in Siria ha assunto anche un riconoscimento all’interno del paese per il supporto all’esercito libanese nel controllo delle frontiere lungo la valle della Bekaa e al Nord. Oggi il movimento del leader Nasrallah eè diventata, forse, la forza politica più influente nel Paese.
L’embargo degli ultimi mesi a tre esponenti Hezbollah e ad un Istituto bancario di loro riferimento non ha facilitato certamente il dialogo politico, ma solo qualche miope osservatore di questa realtà può non capire invece che solo il loro coinvolgimento nella gestione del paese potrebbe facilitare tale transizione.
Il ministro Bassil, un Cristiano maronita del partito del Presidente Aoun, ha dichiarato ultimamente che Hezbollah è un partito libanese, con cinque Ministri al Governo, con esponenti all’interno del Parlamento con una base di circa il 25% di elettori.
Una crisi economica e finanziaria cosi’ profonda ha un solo nemico il tempo che passa.
Da 13 giorni ormai le banche sono chiuse, come pure scuole e uffici pubblici. Comincia a scarseggiare il carburante e anche gli ospedali denunciano la carenza di farmaci.
Il Libano è bloccato
In un paese dove si importa tutto, con il Sistema bancario bloccato, il black out è previsto entro tre giorni.
L’Europa non deve e non vuole abbandonare il Libano per la sua storia, per le sue tradizioni e per quello che rappresenta in Medio Oriente. Da tempo la Conferenza di Parigi finanzia il paese. L’ultima tranche da 11 miliardi di dollari è pronta: prima dello sblocco è necessario che il Governo faccia le riforme previste nell’accordo: ma quali riforme e quale Governo?
È necessario quindi che l’Unione Europea assuma un ruolo di leader, spinga gli altri donatori alla riapertura immediata del canale di finanziamento anche senza garanzie, il prima possible per dare tempo al governo libanese di approvare le riforme più urgenti, anche a costo di imporre il modello europeo di Troika che abbiamo già visto applicare in Grecia. Questa opzione servirebbe per la gente libanese come forma di garanzia del processo di rinnovamento. Inoltre, l’Europa riprenderebbe il ruolo che da troppo tempo non ha il coraggio di gestire nell’area. Si può ricominciare dal Libano, per non dimenticare che la ricostruzione della Siria è prossima.