La risposta umanitaria aiuta le persone, non i governi

Le polemiche sugli aiuti inviati dall’Italia ad Aleppo e Latakia, aree sotto il controllo del governo siriano, distorcono la natura stessa della cooperazione.

Sin dalle prime ore dopo il terremoto in Turchia e Siria che ha distrutto in modo drammatico città e villaggi nei due Paesi, colpendo oltretutto milioni di rifugiati e sfollati siriani, il mondo della cooperazione internazionale si è attivato per portare primo soccorso e aiuto umanitario alle popolazioni colpite. Mentre in Turchia la macchina degli aiuti è subito partita con forza, pur dovendo fare i conti con enormi danni e con importanti inefficienze della politica locale e nazionale, per quanto riguarda la Siria sono subito emersi grandi problemi che hanno causato gravi ritardi.

Da diversi anni, la parte di Siria controllata dal governo di Damasco è sottoposta a pesanti sanzioni, che ufficialmente non colpiscono l’aiuto umanitario, ma che nei fatti limitano di molto la capacità d’intervento della cooperazione internazionale. «Quando si parla di sanzioni – spiega Giorgio Squadrani, responsabile di Armadilla per la crisi umanitaria siriana – è tutto un po’ confuso per chi non vive tutti i giorni questa situazione. Il punto è che le sanzioni sono mirate a tutto tranne che agli aiuti umanitari. Però è anche vero che gli aiuti umanitari ne subiscono le conseguenze perché si crea il cosiddetto chilling effect, ovvero quella che potremmo definire un’autocensura da parte di istituti di credito o fornitori. Se una organizzazione riceve dei fondi da un donatore istituzionale o da chiunque e li vuole mandare in Siria, ne ha tutto il diritto perché sono fondi per aiuto umanitario. Però l’istituto di credito si può rifiutare di effettuare il trasferimento per paura di essere a sua volta sanzionato, semplicemente perché associato alla Siria». 

Questa situazione ha rallentato gli aiuti nelle aree governative, ma va sottolineata con favore l’emissione della General License 23 da parte del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, che sospende per sei mesi gran parte delle sanzioni verso la Siria proprio con lo scopo di consentire l’intervento nelle aree distrutte dal sisma. Sull’efficacia di questa decisione pesano comunque diversi dubbi e zone grigie che andranno comprese nelle prossime settimane.

I problemi, tuttavia, non si limitano alle aree governative. Il nord-ovest siriano, in particolare la provincia di Idlib, è infatti controllato dalle forze che si oppongono a Bashar al-Assad, e che comprendono ciò che rimane dell’Esercito Siriano Libero e i miliziani jihadisti di Hay’at Tahrir al-Sham (ex Jabhat al-Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida). Quest’area della Siria è particolarmente difficile da raggiungere, perché fino a martedì 14 febbraio l’unico punto d’accesso senza attraversare le linee del fronte era Bab al-Hawa, sul confine tra la provincia di Idlib e la Turchia, il cui governo da anni sostiene e sovvenziona i ribelli. Le strade che portano al valico sono state fortemente danneggiate dal terremoto, rendendo quasi impossibile per le organizzazioni umanitarie accedere all’area. Martedì quindi il governo siriano ha accettato di far aprire due nuovi valichi, Bab al-Salam e a Al-Rai, a nord di Aleppo.

In questo contesto, sono molte le voci e le polemiche che hanno cominciato a circolare, tra accuse al governo siriano di limitare volontariamente l’accesso umanitario alle zone controllate dai ribelli fino agli appelli a non inviare aiuti alle aree sotto controllo governativo. In italia, di questa posizione si è fatto portavoce soprattutto il quotidiano la Repubblica, che mercoledì 15 febbraio, in due articoli usciti a poca distanza l’uno dall’altro, ha riportato le parole di Raed El Saleh, il capo della Difesa civile della provincia di Idlib. Quello che viene anche chiamato “capo dei Caschi Bianchi siriani” (un’organizzazione di primo soccorso che ha avuto grande visibilità durante varie fasi del conflitto siriano, ma le cui condotte rimangono quantomeno opache), da un lato si dice “deluso” dal trattamento riservato dall’Europa alle aree controllate dai ribelli, e dall’altro si dice “molto arrabbiato” per la posizione dell’Italia, il primo tra i Paesi europei ad aver fatto arrivare aiuti umanitari ad Aleppo e Latakia, nei territori controllati dal governo di Damasco. Secondo El Saleh, questi aiuti dimostrano che “gli uomini di Assad hanno udienza a Roma”. Eppure l’Italia nelle stesse ore ha spedito un secondo carico di beni a Iskenderun, in Turchia. «Gli aiuti – polemizza El Saleh – vanno fatti arrivare a noi, alle popolazioni dei nostri territori, che per nove anni almeno sono state bombardate da Assad».

Da operatori della cooperazione internazionele, riteniamo si tratti di una polemica strumentale, che altri momenti storici e in altri scenari geopolitici sarebbe stata considerata quantomeno inopportuna, se non addirittura del tutto inaccettabile. Oggi, invece, la posizione secondo cui portare aiuto umanitario in un territorio rappresenti un endorsement del governo di quel territorio ottiene sponde in varie aree politiche e dà luogo a un evidente equivoco rispetto alla natura stessa dell’aiuto umanitario e della cooperazione internazionale. «Tutte le organizzazioni che lavorano sul territorio siriano, così come nel resto del mondo, hanno dei codici di neutralità, imparzialità, terzietà», ricorda Giorgio Squadrani. «È evidente che lavorare in un territorio, qualunque esso sia, comporta dei coordinamenti con le autorità locali, avendo accortezza e diplomazia di non superare alcune linee rosse. È l’ABC dell’umanitario: se devo formare degli insegnanti o lavorare in un ospedale non posso pensare di non interpellare il ministero dell’educazione o il ministero della sanità. Il tema è indubbiamente complesso. Noi non vogliamo negare che ci possono essere delle difficoltà, però ridurre le relazioni complicate che abbiamo con istituzioni di vario tipo a un asservimento, è sinceramente quasi offensivo».

Alle polemiche provenienti da Idlib risponde l’incaricato d’affari italiano per la Siria, l’Ambasciatore Massimiliano D’Antuono, che, intervistato dalla trasmissione di BBC Newshour, si dice «molto dispiaciuto si sentire cose come questa, perché siamo di fronte a una catastrofe umanitaria». D’Antuono ribadisce che «i terremoti non conoscono confini, come già detto dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che sin dall’inizio ha chiarito che va evitata ogni politicizzazione della risposta alla catastrofe umanitaria». «Posso capire la frustrazione delle persone in quest’area così duramente colpita e che era già in una situazione molto difficile prima del terremoto – conclude l’Ambasciatore D’Antuono – ma dobbiamo lavorare tutti insieme per raggiungere tutte le persone. Non importa da dove provenga la risposta umanitaria, da Damasco, dalla Turchia, dall’Europa o da altri luogo. Dev’essere accettata perché siamo di fronte a una situazione estremamente difficile».

Questa posizione, che richiama le basi stesse dell’azione umanitaria, rimane l’unica accettabile in un momento in cui l’emergenza impone di superare divisioni e appartenenze. Anzi, riteniamo vada estesa a tutte le azioni rivolte alla popolazione civile di qualunque Paese e sotto qualsiasi regime politico, perché è da un impegno per la dignità, l’uguaglianza e l’inclusione che passa il senso della cooperazione, che non regge bandiere né si fa manovrare da qualunque governo.

Foto di Mahmut Bozarslan (VOA) – https://www.voaturkce.com/a/usgs-turkiyenin-guneydogusunda-7-8-buyuklugunde-deprem-oldu/6949346.html, Public Domain

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