Le lavoratrici domestiche straniere, trattate come schiave contemporanee, sono le prime a pagare la gravissima crisi economica, politica e sanitaria libanese
Duecentocinquantamila invisibili. Sono le lavoratrici migranti in Libano, soprattutto etiopi, e rappresentano uno degli anelli più bassi e fragili di una società in crisi come quella del Paese dei cedri.
Un Paese che oggi è in ginocchio a causa del disastro economico, schiacciato da un debito pubblico pari al 150% del PIL e con un deficit al nove per cento sul prodotto interno lordo, in cui inoltre i flussi delle entrate necessarie per finanziare la spesa pubblica si sono notevolmente ridotti. La crisi sanitaria globale non fa che peggiorare le cose, e le lavoratrici domestiche, così centrali nella vita delle famiglie libanesi di classe medio-alta, pagano il prezzo più alto. Sin dall’inizio di giugno, sono sempre di più le persone abbandonate in strada, senza un posto in cui andare. «Siamo state gettate sul ciglio della strada come spazzatura», raccontano in un video realizzato in collaborazione con la Caritas.
Da ottobre a oggi la valuta libanese ha perso il 70% del suo valore, il tasso di disoccupazione è quasi impossibile da determinare e il costo dei beni di prima necessità è più che triplicato, cancellando tutti i risparmi dei cittadini. Come detto, a pagarne il prezzo maggiore sono le lavoratrici domestiche, che le famiglie non possono più permettersi di pagare in dollari, ma soltanto in lire libanesi, oppure non pagare più del tutto.
Con la crisi sanitaria, queste donne, o più spesso appena ragazze, si sono trovate senza nulla, neppure la possibilità di rientrare nel proprio Paese d’origine, a causa della chiusura dell’aeroporto di Beirut e in generale delle restrizioni ai viaggi. Proprio per questo, in centinaia si sono rifugiate davanti al consolato etiope sulla collina di Hazmieh, con la speranza di poter almeno tornare a casa.
I datori di lavoro, così come le società di intermediazione che le hanno reclutate, non sembrano avere la possibilità o l’intenzione di offrire supporto a queste lavoratrici. Alcune di loro sono state ospitate in appartamenti del consolato etiope, altre prese in carico dalla Caritas, in attesa che la situazione si sblocchi.
Tuttavia, anche se si dovesse tornare a “prima”, alla cosiddetta normalità, il sistema della kafala (letteralmente “sponsorizzazione”) rimane un punto oscuro del Libano.
Secondo l’agenzia statale per la sicurezza, ogni settimana due lavoratrici domestiche straniere muoiono, o perché decidono di suicidarsi o a causa dei disperati tentativi di fuggire da questo sistema, così difficile da superare perché, come molte pratiche e norme libanesi, è frutto di una stratificazione.
La kafala, infatti, è un insieme di regolamenti amministrativi, pratiche consuetudinarie e requisiti legali che fanno sì che un lavoratore domestico migrante sia del tutto dipendente a un datore di lavoro, definito “sponsor”, per il periodo specifico determinato dal contratto di lavoro.
Secondo la legge sul lavoro libanese i lavoratori domestici migranti possono lavorare legalmente nel paese solo se sono contrattualmente vincolati a uno sponsor locale, con il quale firmano il Contratto Unificato Standard dopo il loro arrivo in Libano. Tuttavia, questo contratto garantisce al datore di lavoro un potere eccessivo sul lavoratore, il quale, per legge, è esplicitamente escluso dalle normali protezioni del lavoro fornite alle altre classi di dipendenti.
Questo significa, come accennato, che i lavoratori domestici, quasi sempre donne, non hanno diritto a un salario minimo, indennità per straordinari, indennità per licenziamento ingiusto, previdenza sociale, congedo parentale e altre garanzie di base.
In maniera non così differente dal sistema italiano, regolato ancora oggi dalla cosiddetta legge Bossi-Fini del 2002, la condizione giuridica di una persona straniera è legata al rapporto con il datore di lavoro: senza contratto si diventa stranieri illegali, con il rischio di essere multati, arrestati o espulsi. Per chi lavora all’interno del sistema della kafala, inoltre, è legalmente proibito revocare l’accordo senza il consenso dello sponsor.
I pochi diritti di queste persone sono spesso calpestati, ma questo rapporto di dipendenza rende molto problematico difendersi. Il lavoratore si trova infatti in una posizione molto debole di fronte a un tribunale, tanto per via delle leggi, quanto per via della percezione di queste persone e della natura del loro lavoro.
Secondo il Contratto Unificato Standard, si dovrebbe lavorare un massimo di dieci ore al giorno, con frequenti brevi pause e almeno otto ore di riposo quotidiano. Tuttavia, non c’è nessun modo per obbligare un datore di lavoro a rispettare questi standard, già piuttosto duri in rapporto al pagamento ricevuto. Anche il periodo di riposo settimanale di 24 ore specificato nel contratto viene trascurato in molti casi, e lo stesso si può dire per il diritto del lavoratore a una telefonata una volta al mese a spese del datore di lavoro. Secondo Amnesty International, il sistema kafala «ha intrappolato i lavoratori domestici migranti in una rete di abusi che vanno fino alla tratta di esseri umani».
Le lavoratrici sono spesso costrette a subire abusi che non vengono monitorati, come la confisca dei passaporti, la trattenuta sui salari, fino al sistematico abuso verbale e alla violenza fisica e al controllo di ogni forma di comunicazione e movimento. Non è raro, camminando per le strade di Beirut la sera, vedere lavoratrici straniere dormire sui balconi delle case che hanno pulito e riordinato per tutto il giorno, o in cui si sono prese cura dei bambini e del cibo per tutta la famiglia. Eppure, in pochi si accorgono di loro, anche perché secondo le leggi libanesi i lavoratori domestici stranieri non hanno il diritto legale di formare associazioni.
Il sistema è stato più volte denunciato per la violazione delle norme fondamentali sui diritti umani e lavorativi, oltre che per la sua incompatibilità con la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), di cui il Libano è firmatario. Sono molte le realtà locali e internazionali a chiedere la completa abolizione del sistema kafala e l’introduzione di un nuovo sistema che protegga i diritti dei lavoratori, in particolare il diritto di revocare un contratto a piacimento, senza perdere il proprio diritto di permanenza in Libano.
Ma la politica, molto divisa e alle prese con una crisi economica da cui non sembra esserci una realistica via d’uscita, sembra avere priorità molto differenti. Per le donne davanti al consolato etiope, l’attesa potrebbe essere davvero lunga.