Il caos mediorientale

Armando Sanguini – estratto dal Rapporto ISPI 2019 “La fine di un mondo”

Il Medio Oriente continua a essere terra di disordine, forse la maggiore del mondo. E se è vero che nel corso del 2018 è affiorato qualche segnale confortante è altrettanto indubbio che nessuno abbia assunto la necessaria forza concludente. Il panorama generale resta dunque marcato da un garbuglio di interessi e ambizioni locali, regionali e internazionali, che si condizionano reciprocamente e nei quali i fattori di criticità prevalgono. A complicare la realtà sul terreno è il fatto che questo garbuglio si presenta in termini alquanto diversificati da paese a paese dando forma a un mosaico accentuatamente policromo di cui tener conto per evitare generalizzazioni fuorvianti. L’antagonismo tra Iran e Arabia Saudita Tra i fattori che incidono maggiormente sulla dinamica del disordine dell’area il più invasivo è dato all’antagonismo tra Iran e Arabia Saudita per l’affermazione di una leadership che:

  • è appariscente nel contesto regionale dove l’Arabia Saudita agita, non a torto, il vessillo della “minaccia vitale” esercitata dall’Iran in termini di un’espansione politico-militare e culturale configurabile in un vero e proprio accerchiamento: a nord, attraverso la direttrice che porta da Teheran al Mediterraneo attraverso Iraq, Siria, e Libano; a est attraverso quella sorta di tenaglia formata dallo Stretto di Hormuz (Golfo Persico) da un lato – che Teheran ha del resto già minacciato di chiudere – e da quello di Bab el Mandel (Golfo di Aden-Mar Rosso) controllabile da parte degli alleati Houthi (Yemen); all’interno delle stesse monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Bahrein in testa, attraverso la mobilitazione delle rispettive minoranze sciite. Le guerre per procura che ne sono derivate – con la scia di stragi che il caso dello Yemen ha portato alla ribalta – hanno rispecchiato lo spessore di tale antagonismo;
  • si proietta a livello planetario. Alla rivendicazione di una sorta di primato religioso da parte della casa reale saudita sull’intera comunità musulmana (dove i sunniti rappresentano la stragrande maggioranza) in ragione del ruolo (peraltro auto-assegnatosi) di Custode dei luoghi santi di Mecca e Medina, si contrappone l’attivo impegno dell’Iran a delegittimare tale primato, contrapponendovi quello sciita a Oriente come a Occidente.

Superfluo sottolineare come tale antagonismo abbia trovato una forte sollecitazione nel 2018 nelle convergenti politiche statunitensi e israeliane puntate al contenimento/contrasto dell’influenza iraniana, segnatamente con la riattivazione delle sanzioni contro Teheran disposta dall’Amministrazione Trump a seguito del ritiro dal Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano e alle azioni militari di Tel Aviv in terra siriana e sul confine col Libano. Su questa tela di fondo è arduo dire quale delle tre principali potenze in gioco, Arabia Saudita, Iran e Turchia, abbia fatto registrare nel corso del 2018 miglioramenti di posizione in termini d’influenza nell’area.

L’Arabia Saudita è certamente riuscita, in condivisione con gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto, sodali anche nella rottura con il Qatar, eccentrico membro del sempre più afono Consiglio di Cooperazione del Golfo, a farsi traino di larga parte del mondo arabo rispetto alle altre due potenze regionali, Iran e Turchia; ma in Iraq, se ha trovato un qualche nuovo spazio di presenza, principalmente economica, da verificare nelle sue potenzialità reali, non è certo arrivata a ridurre seriamente la densità dell’influenza di Teheran. Si è posta sulla scia degli Usa, così come ha fatto in Siria dove, complici le co-interessenze con Mosca in materia energetica, punta a capitalizzare in sede negoziale il sostegno assicurato alle forze di opposizione a Bashar al Assad.

In Yemen, come accennato, si trova ad affrontare la sua sfida maggiore e con un impegno militare e, paradossalmente, umanitario, assai più rilevante di quello dell’Iran. Malgrado le robuste stigmatizzazioni mediatiche per le stragi dei civili che continua a provocare e i modesti risultati ottenuti sul versante militare, la sua coalizione non intende cedere, forte anche del confermato sostegno dell’Amministrazione Trump. Il negoziato di pace avviato a fine anno a Stoccolma apre una nuova prospettiva anche se sconta la comprensibile intransigenza iniziale delle parti in conflitto.

Il fatto più eclatante del 2018 è stato peraltro costituito dall’orrendo pasticciaccio dell’uccisione del giornalista Khashoggi in cui è inciampata l’Arabia Saudita proprio mentre il suo giovane principe ereditario Mohammed bin Salman, detto MbS, stava svettando ai vertici dell’attenzione della comunità internazionale per le sue misure di modernizzazione “dall’alto” e la sua ambiziosa “Vision 2030” imperniata sull’emancipazione dal petrolio. Cucinata mediaticamente a fuoco lento dal premier turco Erdoğan con la complicità delle penosamente contradditorie ricostruzioni dei fatti provenienti da Riyadh, questo odioso scandalo ha inferto un duro colpo all’immagine di MbS e dell’intera casa reale. Ci vorranno tempo e fatica per riuscire a riverniciarla anche perché già macchiata dalle misure di repressione con cui tale modernizzazione stava procedendo. Per questo MbS ha ritenuto consigliabile compiere un giro di “calore” nel paese accanto al re-padre e, quindi, le visite fatte da solo in Egitto, Tunisia, Algeria e Mauritania. Dalla sua trova comunque la cinica legge degli interessi che ha cominciato a imporsi già col vertice del G20 di Buenos Aires dove ha campeggiato l’amichevole “high five” con Putin, la calorosa stretta di mano con Xi Jinping, la connivente vicinanza di Macron, ecc.

Il 2018 ha rappresentato per l’Iran un anno denso di difficoltà sul piano interno come su quello regionale e internazionale. Scosso da una serie di manifestazioni di protesta contro il governo per le mancate o comunque insufficienti ricadute positive del già ricordato Jcpoa del 2015, ha dovuto fare i conti con la politica di “contenimento” decretata dal presidente Trump contro la sua azione “destabilizzatrice”. Imperniata sulla re-introduzione nel 2018 delle sanzioni tolte da Obama con il Jcpoa, tale politica ha investito aree nevralgiche del commercio e finanziarie e soprattutto quella energetica su cui incombe anche la minaccia delle ritorsioni nei riguardi dei paesi che intendano continuare a fare affari con l’Iran. Superfluo sottolineare il plauso venuto dai suoi principali alleati regionali, Israele e Arabia Saudita, al pari del rifiuto opposto a tale “ricatto” americano da paesi come la Cina, la Russia, lo stesso Iraq e altri.

Ma il punto è che le sanzioni mirano, più che agli stati, alle aziende che hanno o intendono avere rapporti d’affari con gli Usa e che ha indotto non poche medie e grandi imprese – parliamo soprattutto di quelle occidentali – a ritirarsi da quel mercato.

E si ha ragione di ritenere che gli sforzi in atto anche da parte dell’Unione Europea, fermamente intenzionata a mantenere in vita il Jcpoa a proteggere le proprie aziende (come lo “Special Purpose Vehicle”), produrranno risultati piuttosto modesti. Un duro colpo per l’Iran che si manifesterà in tutta la sua portata quando andrà a scadenza la moratoria semestrale accordata a 8 paesi (Italia, Cina, India, Corea del Sud, Turchia, Grecia, Giappone, Taiwan); ufficialmente perché già impegnate a ridurre le importazioni di petrolio (Mike Pompeo), in realtà per negoziare condizioni tutte da verificare. Un duro colpo, certo, al quale Teheran ha risposto con lusinghe e velate minacce verso Unione Europea e altri suoi maggiori partner, esaltando la resilienza del popolo iraniano e continuando comunque nella sua politica regionale: di condizionamento della politica libanese per il tramite di Hezbollah; di difesa del ruolo conquistato in Siria col sostegno profuso a favore del regime di Damasco e di salvaguardia del delicato equilibrio realizzatosi con Mosca e Ankara nella diversità dei rispettivi obiettivi strategici; d’influenza sulla vita governativa dell’Iraq, testimoniata da ultimo dalle difficoltà incontrate dal premier Mahdi nella formazione del governo; d’inalterato sostegno ai ribelli Houthi che avrebbe voluto accompagnare anche quello al negoziato avviato sotto l’egida dell’Onu in Svezia tra le parti in conflitto.

Le altre grandi potenze regionali

La Turchia di Erdoğan, dal canto suo, ha confermato la disinvoltura con la quale persegue i suoi obiettivi di fondo nella regione. Schierato contro Bashar al Assad all’inizio della primavera araba siriana al punto da facilitare l’ingresso in Siria delle milizie jihadiste, ivi comprese al-Qaeda e lo stesso Isis, ora si presenta come alleato di Mosca e di Teheran, sostenitori di Damasco, in vista di una stabilizzazione del paese che però stenta a materializzarsi. Emblematico al riguardo è il caso dell’intesa raggiunta con Putin per la “sistemazione” della provincia di Idlib. Ankara ha assicurato di poterla conseguire, ma non sembra riuscirvi, non solo per il persistente rifiuto dei ribelli più radicali di evacuare, abbandonando le armi pesanti, ma soprattutto perché sembra profilarsi la prospettiva che il gruppo più forte, Hayat Tahrir al-Sham (Hts), intenda soverchiare gli altri aprendo il varco all’intervento armato di Damasco, decisamente temibile per il rischio di strage di innocenti cui potrebbe portare. Ma se da un lato Erdoğan cerca di salvare il salvabile del suo ruolo in Idlib, non appare intenzionato a ridimensionare il suo obiettivo assolutamente prioritario: stroncare quella che lui stesso considera la minaccia del “terrorismo curdo”, incarnato dal Ypg (Unità di protezione del popolo) di cui denuncia l’affiliazione al Pkk, lungo il confine nord della Siria.

Il confronto apertosi in proposito con gli Stati Uniti, che non sembrano disposti ad abbandonare i loro migliori alleati contro l’Isis, ha assunto toni nevralgici nel corso del 2018. Presunte intese si sono alternate a patenti malintesi in una dialettica che Erdoğan sta rischiosamente forzando ma che non ha interesse a portare allo scontro armato che del resto neppure gli Usa vogliono. Resta poi sullo sfondo un’altra bandiera che Erdoğan vorrebbe far sua: l’affermazione di un suo ruolo protagonistico nella regione, e non solo,

  • agitando il vessillo dell’islam politico della Fratellanza musulmana, peraltro invisa alle principali potenze arabe, Arabia saudita ed Egitto in testa,
  • sfruttando cinicamente ogni utile occasione per oscurare il loro ruolo. Il ricordato caso Khashoggi ne è stato un esempio illuminante.

A livello regionale non si può trascurare la perdurante e frustrante involuzione del pluridecennale Processo di pace che neppure nel 2018 ha fatto registrare svolte significative. Anzi, l’inaugurazione dell’Ambasciata statunitense a Gerusalemme ne è stato un segnale tristamente evocativo anche perché accompagnato dall’annuncio di Trump dell’impegno americano “a facilitare un accordo di pace duraturo che compia la nostra più grande speranza che è per la pace”. Di fatto la situazione è peggiorata, grazie anche alla complicità di Hamas, artefice e vittima del suo labirinto ideologico. Il 2018 ha fatto però inoltre affiorare come questa dinamica non sia stata di impedimento al progredire di un clima di avvicinamento nei rapporti fra Tel Aviv e una parte significativa dei suoi vicini arabi. E ciò in materia non solo di sicurezza e difesa in ragione del rango di “comune nemico” assunto da Teheran col sodale Hezbollah, ma anche di economia, tecnologia, comunicazioni: l’annuncio che Air India raggiungerà Tel Aviv attraversando lo spazio aereo saudita, la visita in Oman del Premier Netanyahu nell’agosto del 2018, l’invito alla “Startup Nations Conference,” (Bahrein aprile 2019) rivolto al Ministro dell’economia israeliano sono solo alcuni dei segnali pubblici di questa nuova direzione di marcia. Che certo si nutre di un articolato sottostante ancora avvolto nella riservatezza.

Merita un cenno anche il piccolo e ricchissimo Qatar che non solo sta resistendo piuttosto bene all’embargo decretatogli contro nel 2017 dalle monarchie saudita-emiratino-bahreinita- egiziano, ma che proprio in chiusura d’anno ha voluto annunciare il suo divorzio dall’Opec, di cui l’Arabia Saudita è il membro più influente, a partire dal 2019. Un gesto di sfida aperta destinato ad allentare ulteriormente la già claudicante coesione del Consiglio di cooperazione del Golfo; ma anche un atto dichiaratamente finalizzato all’assunzione di un ruolo ancor più preminente a livello planetario in materia di gas naturale e di Gnl. Un gesto che conferma l’assoluta eccentricità di questa monarchia capace di avere buoni rapporti con un mosaico incredibile di attori regionali e internazionali, dall’Iran alla Turchia, da Hamas al quasi scomparso Libyan Fighting Group, vicino ad al-Qaeda, dagli Usa di cui ospita un’importante base militare ai tanti membri della comunità internazionale che apprezzano gli investimenti qatarini e aspettano i mondiali di calcio del 2022.

Il ruolo delle potenze extraregionali

Quanto agli attori internazionali che calcano la scena del Medio Oriente, la Russia è in prima linea. Con un Putin che anche nel 2018 ha dato prova della sua capacità di sfruttare le debolezze altrui, Usa in testa, per non parlare di un’Unione Europea ridotta a un ruolo da comparsa, per continuare a porsi e a proporsi quale

  • risolutore militare della crisi siriana e nello stesso tempo quale arbitro della sua “soluzione politica” tessendo una robusta concertazione tattica con Teheran e Ankara e i rispettivi sodali, in primis Hezbollah, mantenendo al contempo rapporti costruttivi con Israele e con la stessa Arabia Saudita, tenendo ben presente il carattere strategico del suo rapporto con gli Stati Uniti e senza mettere in discussione, di fatto, il primato negoziale delle Nazioni Unite a Ginevra;
  • potenza mediatrice in vista di un processo di stabilizzazione in Libia, ricondotto adesso sotto l’egida dell’Onu, pur senza allentare il vincolo che lo lega al Parlamento di Tobruk (riconosciuto internazionalmente) e al suo discusso generale Haftar e agli altri suoi sostenitori, come l’Egitto e, di fatto, la Francia;
  • campione della lotta al terrorismo di matrice islamista – che tra l’altro rappresenta una vera e propria minaccia all’interno della Russia – al quale ha dato per la verità, e non solo in Siria, una lettura alquanto ampia e strumentale, oggi sotto delicata verifica nell’intesa con la Turchia nella provincia siriana di Idlib.

In buona sostanza quale potenza ineludibile nella grande partita che si sta giocando in Medio Oriente, oltre che a livello planetario. Ciò detto, non si può negare che nel corso e poi in chiusura d’anno, là dove la sua indiscutibile abilità è stata messa più alla prova, cioè la Siria, Putin ha dovuto registrare non poche difficoltà e battute d’arresto, marcate da ultimo dal deludente incontro di fine novembre del terzetto Mosca-Teheran-Ankara, dove la diversità delle loro agende tattiche e strategiche ha finito per prevalere.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Trump ha confermato l’impianto strategico in funzione del quale si è ritirato dal Jcpoa (accordo nucleare) puntato all’obiettivo, opposto a quello perseguito da Obama, di torcere il braccio dell’Iran con un’azione di debilitazione da un lato e di contenimento delle sue ambizioni regionali dall’altro, di concerto con i suoi primari alleati regionali, cioè Israele e Arabia Saudita. Con lo scopo dichiarato di imporre una revisione/integrazione dello stesso Jcpoa e forse quello non detto di un “regime change” foriero peraltro di un temibile rafforzamento dei settori politico-militari del paese più conservatori. Ha peraltro ribadito la sua determinazione a proseguire nell’azione politico-militare volta a stroncare le forze del terrorismo di diretta derivazione Isis, ovvero di matrice al-Qaeda e/o di altre sigle della galassia jihadista che anche nel corso del 2018 hanno trovato brodo di coltura cui abbeverarsi dalla Siria all’Iraq, dallo Yemen alla cintura del Sahel.

A questi possiamo aggiungere altri due obiettivi sussidiari emersi con chiarezza nel corso del 2018:

  • salvaguardare il controllo esercitato con le forze curdo-arabe delle Sdf (Syrian Democratic Forces) sul territorio a est dell’Eufrate per monetizzarle al meglio 120 La fine di un mondo al tavolo negoziale sul futuro della Siria sotto l’egida dell’Onu;
  • ottenere dal governo di Baghdad un’adeguata contropartita per l’impegno politico e militare profuso da Usa e alleati, occidentali e arabi, per sconfiggere l’Isis.

Interessante al riguardo la decisione americana di fare squadra con la Gran Bretagna per sollecitare lo stop alla guerra in corso in Yemen, un atto verosimilmente in linea con lo storico, anche se poco applicato, richiamo ai principi dell’etica politica americana, sollecitato da un forte movimento di opinione pubblica turbata dal disastro umanitario yemenita e dal delitto Khashoggi.

Le crisi in corso

Libia

L’esito dell’incontro di Parigi del luglio 2017 e poi della riunione internazionale del maggio 2018, sempre a Parigi, ha parlato dell’ambizione di Macron sulla Libia, ma anche della sua insistenza per la data del 10 di dicembre 2018 per le elezioni; come inoltre della sua frustrazione per il rinvio della scadenza elettorale da lui ostinatamente voluta concordato in Consiglio di Sicurezza (Onu). Rinvio dovuto alla portata del caotico garbuglio libico in cui una moltitudine di milizie della più varia natura e specie si è confrontata con le agende in parte autonome in parte correlate al ruvido contrasto fra dei due grandi antagonisti, Fayez al-Sarraj (Tripoli) e Khalifa Haftar (Tobruk) che anche nel 2018 si sono andate incrociando con le contrastanti ambizioni degli sponsor esterni; tutti dichiaratamente convergenti con l’azione delle Nazioni (da Francia-Russia-Egitto, a Turchia-Qatar, e altri).

La Conferenza di Palermo, promossa a novembre 2018 dal governo italiano che pure ha manifestato diverse criticità, ha avuto almeno il merito di riposizionare Roma rispetto a Parigi, di affermare il principio de “la Libia ai libici” e di riportare il processo di stabilizzazione del paese nell’alveo della road map tracciata Ghassan Salamé, il rappresentante speciale Onu, tracciato attraverso un lungo lavorio di consultazioni locali e mirante a portare a fattor comune le rivendicazioni politico-economico- istituzionali dei tanti attori locali. A cominciare dai due precitati protagonisti. Road map che contempla a inizio 2019 una fondamentale Conferenza nazionale libica, la costituzione di commissioni in campo energetico e delle infrastrutture, il referendum sulla nuova Costituzione (tra gennaio e febbraio se tutto procede come previsto) e quindi le elezioni locali, legislative e presidenziali (giugno?). Su questo sfondo prospettico si colloca la visita che il generale Haftar ha compiuto a Roma, dopo aver visto a Tunisi l’ambasciatore americano, a riprova del ruolo riconosciuto al nostro paese nel processo di stabilizzazione della Libia. Di buon auspicio per i nostri interessi prioritari – energia, sicurezza, flussi migratori, legati indissolubilmente al suo successo.

Yemen

Per quanto riguarda lo Yemen, la fine del 2018 sembra riservare qualche minuscolo brandello di speranza. Martin Griffiths l’inviato speciale delle Nazioni Unite, forte delle sollecitazioni anglo-americane e, a latere, russe e iraniane, e degli allarmati appelli delle Organizzazioni umanitarie è riuscito dove aveva fallito lui stesso a settembre e prima ancora il suo predecessore, riunendo per la prima volta le delegazioni delle parti in conflitto, a Rimbo, in Svezia. Un incontro destinato principalmente a costruire un terreno di fiducia su cui innestare un negoziato “aperto”, cioè senza scadenza.

Un terreno su cui porre, ad esempio, un’intesa sullo scambio di prigionieri (2.000 governativi contro 1.500 Houthi), così come sul trasporto in Oman di 50 ribelli Houthi feriti, cui aggiungere temi via via più complessi, come il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici nelle zone controllate dagli Houthi, lo stop al lancio di razzi da parte dei ribelli e delle bombe da parte dei lealisti, l’apertura dell’aeroporto di Sanàa, in mano agli Houthi, ecc. Ma lo scoglio più arduo riguarda Hodeidah, il porto d’ingresso di gran parte dei rifornimenti (aiuti umanitari e armi), per il quale si è concordato un cessate il fuoco, promettente ma ancora incerto. Il seguito lo si vedrà nel 2019.

Siria

Il 2018 si chiude in Siria con uno stallo rischioso: per le incertezze che gravano sul futuro di Idlib, l’ultima roccaforte dell’opposizione di matrice jihadista e qaedista che continua a sfidare l’intesa di de-escalation tra Turchia e Russia a fronte dell’impazienza del regime di Damasco; per il braccio di ferro tra Usa e Turchia sui curdi attestati lungo il confine turco-siriano che i primi vogliono tutelare e la seconda contrastare; per il contenimento della “minaccia” iraniana (Siria) e di Hezbollah (Libano) da parte di Israele col sostegno americano e l’astensione russa; per gli irrisolti problemi di equilibrio tra i membri della triplice russa-iraniana-turca di Astana correlati anche alla rendita negoziale che gli Stati Uniti intendono trarre dal controllo dell’area a est dell’Eufrate al tavolo di Ginevra – se e quando sarà convocato dopo l’uscita di scena di Staffan de Mistura –; per i rigurgiti comunque temibili dell’Isis nell’area sotto il controllo degli Usa-Sdf (curdi-arabi) e lungo il confine sud, ma anche nelle aree controllate dal regime. Il testimone passa adesso al norvegese Geird Pedersen, nuovo inviato delle Nazioni Unite per la Siria sul cui compito è venuto a gravare, proprio in chiusura d’anno, l’annuncio a sorpresa del ritiro del contingente militare americano da parte di Trump su cui Putin si è mostrato alquanto scettico, malgrado siano state seguite dalle dimissioni del segretario della Difesa James Mattis, e di cui comunque sarà necessario verificare tempi e modalità.

Iraq

Con la nomina del leader curdo Salih alla presidenza della Repubblica e del premier Abdul Mahdi – considerato un candidato di compromesso tra l’uscente Abadi (Stati Uniti) e il predecessore Al Maliki (Iran) – l’Iraq sta cercando di voltare definitivamente pagina. Ma è stallo nella formazione del governo per il contrasto tra i leader (il nazionalista Moqtada al-Sadr e il pro-Iran Hadi al-Amiri) delle due principali formazioni sciite del paese. Si tratta di un braccio di ferro rischioso per questo paese che già diviso al suo interno in termini politico-economico-settari avrebbe vitale bisogno di riuscire a rispondere ai forti fattori di malumore che attraversano la popolazione, e non solo al sud, teatro di violente proteste; di dare corso al gigantesco programma di ricostruzione delle aree devastate dalla guerra all’Isis – che pure continua a manifestarsi con incursioni terroristiche anche nella capitale –; di riportare insomma il paese lungo una traiettoria di visibile stabilizzazione.

Conclusioni

Il Medio Oriente si apre anche nel 2019 all’insegna di specifiche conflittualità politico-economico-settarie statali e non-statali (Libia, Siria, Iraq, Yemen, Israele-Palestina), inquinate da un garbuglio di agende regionali e internazionali (da Mosca a Washington, da Teheran a Riyadh, da Ankara a Il Cairo, ecc.) che si ripercuotono nelle rispettive prossimità e si aggiungono a situazioni di potenziale instabilità come nell’Egitto dell’autoritario al-Sīsī, nel quadrante energetico del Mediterraneo sud-orientale, nelle sofferenze sociali della Tunisia e nella nebbia politico-militare che incombe sull’Algeria. Uno scenario sul quale l’Onu appare più determinata ad agire, sul quale si stende la politica di “non ingerenza” ma di presenza attiva della Cina nella prospettiva della Belt and Road Initiative mentre l’Unione Europea latita.

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