Siria. Aspettando la pace

Papa Francesco ha più volte, negli ultimi mesi, invitato a pregare per la Siria e si appella «nuovamente a tutti i responsabili politici perché prevalgano la giustizia e la pace. Sono profondamente turbato dall’attuale situazione mondiale, in cui, nonostante gli strumenti a disposizione della comunità internazionale, si fatica a concordare un’azione comune in favore della pace in Siria e in altre regioni del mondo».

Da anni le Nazioni Unite si prodigano per garantire aiuti umanitari alle vittime del conflitto e, con l’inviato speciale per la Siria, Staffan de Mistura, un lungo e difficile lavoro di mediazione per arrivare alla pace.

Dopo più di 7 anni di sanguinosa guerra civile, circa 500.000 morti e un milione mezzo di feriti, il travagliato Paese mediorientale potrebbe, entro il 2018, voltare pagina. Il Governo di Damasco, ha commentato De Mistura, “sa che sia la Russia sia l’Iran, non vogliono rimanere in eterno sul terreno né possono fornire gli oltre 254 miliardi di dollari necessari ad avviare la ricostruzione del Paese. Sarebbe utile che accettasse un processo di condivisione del potere (powersharing), ovvero accettare di scrivere una nuova Costituzione che, archiviato il potere assoluto, porti alla condivisione di responsabilità e poteri. Entro 18-24 mesi si dovrebbero quindi indire elezioni democratiche, con la supervisione dell’Onu coinvolgendo la maggioranza sunnita, le varie minoranze che fanno parte del mosaico siriano. Solo così le sofferenze della gente avranno termine e non rischieremo un allargamento del conflitto, a cominciare da un potenziale duro confronto tra Israele e l’Iran”.

Secondo molteplici fonti, si prevede che gli scontri più rilevanti in Siria cesseranno entro la fine del 2018. Non avranno ancora termine, probabilmente, i piccoli scontri tra le varie etnie e quindi tra i loro referenti esterni; ma il grosso delle azioni armate certamente cesserà, ormai le aree di influenza si sono stabilizzate. Il primo dato che salta agli occhi è che, malgrado tutto, le forze di Bashar al Assad hanno vinto. Tutti gli attori internazionali operanti sul terreno, amici o nemici, non hanno difficoltà a riconoscerlo. Certo, né il governo siriano né la Russia hanno, da soli, la forza di compiere la ricostruzione del Paese, ma sia la Cina sia i Paesi occidentali, soprattutto quelli che hanno partecipato alla lotta contro Assad e gli altri, meno presenti, progettano tutti di partecipare alla ricostruzione per influenzare ancora, ma stavolta pacificamente, la Siria.

Oggi ci sono poche cose che la Comunità internazionale può fare per prevenire e gestire i conflitti interni agli Stati sovrani. La “linea rossa” che nessun governo può oltrepassare è costituita dal rispetto dei civili nelle zone di conflitto e dal divieto di uso di armi chimiche o batteriologiche. Questi sono gli unici casi, almeno secondo il diritto internazionale, in cui la sovranità degli Stati è limitata da alcune norme di comportamento generali che se non rispettate possono portare all’intervento di altre nazioni nel conflitto. Questi pilastri dell’attuale ordine internazionale non sono solo garantiti dalle Nazioni Unite ma anche dagli accordi di Ginevra nelle loro diverse edizioni, dalla seconda guerra mondiale ad oggi.

Nel caso siriano l’utilizzo di armi chimiche con vittime civili, sembra essere stato infranto negli ultimi mesi e questa violazione giustificherebbe l’intervento armato contro il governo siriano compiuto dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia lo scorso 14 aprile. Ma che prove sono state mostrate per incolpare chi ha fatto questo crimine? Ad oggi infatti nessuna prova inconfutabile è stata presentata davanti alla comunità internazionale, ma la questione è tornata di attualità nei giorni scorsi quando è stato pubblicato un primo report da parte degli espettori dell’Organisation for the prohibition of chemical weapons che denuncia l’uso di armi al cloro durante gli scontri avvenuti nel febbraio scorso vicino alla città di Saraquib, nel Nord del Paese. Anche se sembra dalle testimonianze e dalle prove scientifiche raccolte dall’Agenzia delle Nazioni Unite che siano state usate armi chimiche con vittime civili, resta il dubbio su chi le abbia utilizzate.

Nella strage di Douma il 7 aprile scorso sono morte 70 persone, la maggior parte delle quali civili non combattenti. I medici riconobbero nelle vittime i segni di un’intossicazione non meglio precisata ma affine a quella da gas Sarin. Le armi chimiche utilizzate a Duma, è stato detto, pare fossero armi al cloro simili a quelle di Saraquib. Per la verità le armi al cloro, a differenza per esempio del gas Sarin, sono di facile fabbricazione e di certo non così innovative o complesse da aver bisogno di una grande ricerca tecnologica. Anche l’ISIS secondo la BBC avrebbe fatto uso di armi chimiche artigianali con sostanze simili al cloro in almeno due occasioni tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018.

In questo quadro complesso di verità contrastanti quello che è certo è che l’esercito siriano possedeva, almeno fino al 2013, un arsenale di armi chimiche che comprendeva anche il letale gas sarin (come accertato dagli ispettori dell’Onu all’epoca). Dall’ottobre del 2013 Assad, rispondendo a una richiesta della comunità internazionale aderì alla Convenzione per lo smantellamento delle armi chimiche e da allora Damasco nega di essere direttamente in possesso di questo genere di armamenti.

Sembra ormai che sia di nuovo possibile riunire il Paese sotto la guida dell’attuale governo. La possibilità di una vittoria totale di Assad, unita al risultato delle recenti elezioni in Iraq in cui ha trionfato un governo che simpatizza con l’Iran, prospettano per USA, Israele e Arabia Saudita uno scenario fosco in cui un blocco sciita a trazione iraniana controlla l’intera regione mediorientale, dai confini del Pakistan al Libano.

La possibilità di un Medio Oriente a guida sciita, oltre a preoccupare gli israeliani per la minaccia iraniana, è anche pericolosa per gli americani che scorgono la chiara ombra di Mosca dietro a questo nuovo assetto geostrategico.

È quindi possibile che l’accusa di usare armi chimiche, vera o presunta che sia, possa tramutarsi in un nuovo motivo per ribaltare le sorti del conflitto. Non sorprende in questo caso la posizione della Francia, che fin dal primo momento ha sostenuto l’opposizione siriana al regime di Assad, né della Gran Bretagna sempre più legata all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo.

Del resto andando indietro con la memoria di qualche anno si ricorderà che furono proprio le accuse mosse a Saddam sulle armi di distruzione di massa, accuse poi rivelatasi in gran parte infondate, a determinare l’intervento americano in Iraq del 2003.

Tuttavia a differenza di allora gli Stati Uniti sembrano indeboliti nella loro capacità di intervento e la Russia è coinvolta negli affari regionali con un’intensità che non si vedeva dalla fine della guerra fredda. Un intervento diretto della Nato potrebbe aprire un fronte di tensione gravissimo a livello internazionale con conseguenze inimmaginabili, tanto da far impallidire a confronto la crisi ucraina.

E la volontà di pace resta ancora una speranza da affidare alle preghiere richiesta dal papa e agli inviti diplomatici delle Nazioni Unite.

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