Siria, dieci anni dopo

La guerra in Siria, dal 2011, ha causato più di 500 mila vittime e circa la metà della popolazione è stata costretta ad abbandonare le proprie case per sfuggire alla guerra, alle violenze e alle distruzioni. Nel complesso si stima che attualmente 11,1 dei 18 milioni di siriani abbiano bisogno di assistenza umanitaria. Di questi, 4,7 milioni di persone hanno bisogni acuti, 6,1 milioni sono sfollate, 5,6 milioni si sono rifugiati nei paesi vicini con limitate prospettive di rientrare nel Paese, a causa della convergenza di fattori che ne aumentano la vulnerabilità quali: il perdurare delle ostilità, la perdita di beni e mezzi di sostentamento, e l’accesso limitato a beni e servizi di base. Le infrastrutture di base – scuole, sistemi di approvvigionamento dell’acqua, strutture sanitarie e abitazioni – sono state gravemente danneggiate e/o contaminate da ordigni esplosivi e non sono mai state riparate. Nelle aree del Paese in cui le ostilità perdurano (nord-ovest, nord-est, sud), sopravvivere rimane una lotta giornaliera dovuta al limitato accesso ai sevizi di base e alle opportunità di sostentamento, alle crescenti difficoltà finanziarie e alla scarsa capacità di far fronte a problemi sempre in aumento. Nel 2019, sono stati registrati più di 1,8 milioni di sfollamenti. Circa il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.

Il processo di rientro in patria dei siriani che sono ora all’estero è stato discusso in una Conferenza internazionale che si è svolta l’11 e il 12 novembre a Damasco su iniziativa della Russia.

L’Unione Europea, in un comunicato ha reso nota la sua posizione: “l’Unione europea – si legge nel testo – è del parere che la priorità attualmente sia un’azione genuina per creare le condizioni per un ritorno sicuro, volontario, dignitoso e sostenibile dei rifugiati e degli sfollati interni alle loro aree di origine, in linea con il diritto internazionale e i parametri di protezione per il ritorno dei rifugiati in Siria”. Secondo l’Unione Europea, la conferenza di Damasco è considerata “prematura”.

Secondo i responsabili della Ue “sebbene la decisione di rimpatrio deve sempre essere individuale, le condizioni all’interno della Siria attualmente non si prestano alla promozione di rimpatri volontari su larga scala, in condizioni di sicurezza e dignità in linea con il diritto internazionale”.

Il vescovo dei maroniti di Aleppo, monsignor Joseph Tobji, ha pubblicato un suo accorato appello: “La situazione degli sfollati interni è molto critica. La maggior parte sono tornati nelle città, nei loro villaggi ma senza case, strade e palazzi e questa è la cosa più difficile anche se la forza della famiglia sopperisce alle mancanze e molti si stanno arrangiando e accogliendosi l’un l’altro, aspettando la ricostruzione che dipende anche molto dalle sanzioni in vigore. La gente ad Aleppo soffre la fame. A causa delle sanzioni, dei capitali che sono fuggiti all’estero, a causa della mancanza del lavoro qui la situazione – lo posso dire con certezza – è peggio di quanto stavamo sotto le bombe. Adesso stiamo molto peggio rispetto a quando stavamo sotto le bombe. Dunque questa è la guerra adesso che continua in modo più forte e che uccide tutta la popolazione. Per questo noi, già dall’inizio della guerra, chiedevamo che non venissero applicate le sanzioni perché qui è il popolo che soffre. Serve tutto, a partire dalla salute, le medicine, il cibo, l’elettricità, l’acqua che manca ancora in diverse parti del Paese. È una vita veramente molto difficile da vivere. Ecco perché i rifugiati, quando vedono questa situazione, non si sentono incoraggiati a ritornare.

Da fine luglio fino a metà agosto la pandemia Covid 19 ha provocato molte vittime poi si è fermata e adesso non si avverte più così tanto. Ci sono pochi morti ma se fosse continuata come prima, metà della popolazione sarebbe scomparsa. L’auspicio per la popolazione siriana e per i rifugiati che vorrebbero rientrare e ancora non possono farlo è che cessi la guerra, che ci sia la pace, che si tolgano le sanzioni e dico ai rifugiati: “Qui è casa vostra, le radici sono qui”, so che la gran parte dei rifugiati non è contenta del luogo in cui si trova e vuole tornare a casa…”.

Anche a Damasco la situazione non è migliore. La benzina scarseggia e ci sono chilometri di code ai distributori. La gente è esausta. Ora che arriva l’inverno, già sappiamo che ci sarà emergenza di gasolio per il riscaldamento. La corrente va e viene. Anche le razioni di pane, distribuito direttamente dallo Stato sono state ridotte. E ad aggravare la situazione c’è il problema che gli sfollati interni che vivono nei dintorni della capitale Damasco, non sono considerati una priorità dalla comunità internazionale in quanto si suppone debbano essere assistiti dal governo locale. Che non ne ha le condizioni e possibilità. A raccontare le condizioni di vita dei siriani è padre Bahjat Karakach, guardiano del convento francescano di Bab Thouma a Damasco. “Con le sanzioni imposte, il Paese non riesce a ripartire economicamente: la lira siriana ha perso il suo valore e i prezzi sono altissimi. La gente non vede un orizzonte e ci troviamo a vivere una situazione di emergenza peggiore di quella che c’era durante i bombardamenti”, afferma il religioso, le cui parole sono riportate sul sito della Custodia.

Inoltre, “la crisi libanese ha influito molto sulla Siria, perché molti siriani lavorano in Libano e così oggi c’è chi non riesce più ad aiutare le proprie famiglie. Anche tutti gli aiuti passavano attraverso il Libano, ma adesso il Libano è in ginocchio”.

“Oggi c’è bisogno di tutto, dice padre Bahjat Karakach, ma soprattutto è importante che si continui a parlare della Siria. Spesso la gente si dimentica della questione siriana oppure le notizie sono di parte. Abbiamo bisogno di una comunità internazionale che lavori per la reintegrazione della Siria nel panorama mondiale. Come si può dare speranza se il Paese non può essere ricostruito?”.

Sono ripresi a Ginevra, il primo dicembre 2020, i lavori coordinati dall’inviato speciale dell’Onu per la Siria Geir Pedersen, per costituire il comitato costituzionale che dovrebbe proporre un processo di pacificazione e di riforme istituzionali nel paese. Si riparte dalla Risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che prevede la fine dei combattimenti, il ruolo delle Nazioni Unite nel coinvolgere tutte le parti del conflitto al tavolo dei negoziati, l’impegno a sostenere la sovranità, indipendenza, unità e integrità territoriale della repubblica siriana; l’istituzione di un regime nazionale di transizione; l’avvio del processo di elabora-zione di una nuova Costituzione e lo svolgimento di libere elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite.

1. Analisi della congiuntura attuale

La crisi bellica che si protrae da quasi dieci anni, la perdita dei beni, la scarsità di investimenti finanziari nel Paese, le pressioni risultanti dal regime sanzionatorio sono tutti fattori che contribuiscono alla perdita dei mezzi di sostentamento, alla riduzione del potere d’acquisto e ad una situazione economica in constante deterioramento. Su tale quadro incombe la sempre più drammatica crisi economica esacerbata dalla crisi del vicino Libano e dall’emergenza Covid-19. Nel corso degli ultimi 12 mesi la lira siriana si è svalutata del 400% sul mercato non ufficiale, raggiungendo il punto più basso pari a 3.120 lire per 1 dollaro (recentemente ha recuperato leggermente, assestandosi intorno alle 2.400 lire siriane), costringendo la Banca Centrale ad adeguare il tasso di cambio ufficiale da 704 a 1.256 lire siriane per 1 dollaro e 1.400 per 1 euro. I prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati di più del 130%, oltre 9 milioni di persone sono insicure dal punto di vista alimentare, con un aumento di 1,4 milioni negli ultimi sei mesi, mentre quelli che soffrono di grave insicurezza alimentare sono raddoppiati, passando da circa 570.000 a più di un milione. Le misure di prevenzione per contrastare la pandemia COVID-19 in atto hanno interrotto vari servizi nei diversi settori d’intervento umanitario, creando nuovi bisogni e aumentando le vulnerabilità della popolazione già stremata. L’OMS classifica la Siria ad alto rischio di diffusione del COVID-19. Dal primo caso annunciato il 22 marzo scorso al 30 novembre 2020, i casi confermati dall’OMS in tutto il paese sono 7.797, 413 i decessi. La capacità di sorveglianza e di test è insufficiente e le infezioni sono in costante aumento, con un impatto potenzialmente catastrofico sulla popolazione che ha subito per 9 anni la crisi nel Paese. Il sistema sanitario in tutta la Siria infatti è significativamente indebolito. Le misure di prevenzione per il COVID-19 adottate dalle autorità hanno avuto un impatto diretto nella fornitura di servizi essenziali, compresa l’istruzione e i servizi di tutela della protezione. In particolare, le scuole e gli istituti finanziari, i servizi di documentazione legale e civile sono rimasti chiusi, in toto o parzialmente, per almeno due mesi. La perdita di produzione durante le attività agricole stagionali e l’impatto sul mercato del bestiame potranno nei mesi a venire limitare la disponibilità di alimenti. Di conseguenza, si prevede un ulteriore peggioramento dello stato nutrizionale della popolazione, specialmente per i gruppi vulnerabili – sfollati e persone con limitato accesso all’assistenza sanitaria e a quella alimentare.

Gli obiettivi del Piano di Risposta Umanitaria per la Siria (HRP) sono i seguenti:

  1. Fornire assistenza umanitaria salva-vita di primissima emergenza alla popolazione siriana più vulnerabile soprattutto quella che risiede in aree con un’elevata intensità dei bisogni;
  2. Migliorare la prevenzione e la mitigazione dei rischi legati alla tutela della protezione e rispondere ai bisogni in termini di protezione attraverso la promozione del diritto internazionale, dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale;
  3. Aumentare la resilienza e l’accesso ai servizi: la risposta nell’ambito di questo obiettivo mira ad aumentare la resilienza attraverso il miglioramento delle opportunità di 11 NB: I rifugiati palestinesi che presentano le vulnerabilità menzionate meritano particolare attenzione, data l’acutezza dei loro bisogni.

2. Evoluzione del conflitto

I colloqui inter-siriani mediati dall’Onu per la modifica alla costituzione del paese, attualmente in guerra da dieci anni, sono stati ripresi il primo dicembre 2020, a Ginevra in Svizzera. L’incontro del comitato costituzionale siriano è presieduto da Geir Pedersen, inviato speciale dell’Onu per la Siria. Il comitato è composto da tre diverse delegazioni, comprendenti “una governativa e una delle opposizioni, ciascuna delle quali è divisa in una componente politica e una della società civile”. La pandemia di Coronavirus ha costretto per via delle misure restrittive adottate, numerosi membri delle delegazioni a non essere presenti in loco, pertanto si collegheranno via Internet all’incontro di Ginevra. “Si tratta del quarto round di colloqui dopo i primi tre svoltisi a Ginevra e in maniera virtuale a partire dall’autunno del 2019. Alla vigilia di questo nuovo appuntamento, Pedersen si è detto “ottimista” sulla possibilità di far avanzare in maniera costruttiva la discussione tra le parti”

L’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha affermato che ” è arrivato il momento di sbloccare i colloqui di Ginevra per cercare una soluzione politica alla guerra in Siria.

Le sanzioni dell’Ue non mirano alla popolazione civile, ma sono destinate a coloro che opprimono il popolo siriano, che usano armi chimiche e che bombardano scuole e ospedali. Noi continueremo a rispondere al fabbisogno umanitario e chiederemo una soluzione politica. È arrivato il momento di sbloccare i colloqui di Ginevra e di cercare una soluzione politica e di fare arrivare una pace davvero inclusiva in Siria”, ha concluso Borrell.

Importante conoscere le posizioni che i diversi soggetti internazionali hanno assunto nel conflitto siriano e su questo riportiamo una sintesi del documento del Senato, a cura di Angela Mattiello, dal titolo ” Siria: dopo 9 anni di conflitto a che punto siamo?

www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01149283.pdf

La Russia nel mese di settembre 2015, ha annunciato la propria decisione di intervenire militarmente, dispiegando le proprie forze sul campo di battaglia e avviando una massiccia campagna militare. Questa presenza sul territorio ha inciso in misura determinante sugli equilibri regionali: ha evitato la sconfitta dell’esercito di Assad e ribaltato l’equilibrio delle forze, soprattutto a seguito della resa di Aleppo del dicembre 2016 negoziata da Russia e Turchia, senza il coinvolgimento delle cancellerie occidentali.

Da allora la Russia ha potuto sfruttare l’indebolimento dei ribelli e ha assunto un ruolo chiave negli sviluppi del conflitto, vestendo anche il ruolo del principale mediatore del negoziato politico, concordando la cessazione delle ostilità tra il governo siriano e i principali gruppi dell’opposizione armata a dicembre 2016 e tentando di garantirne il mantenimento tramite i colloqui di Astana.

Oggi la posizione della Russa si può sinteticamente riportare in quattro punti che il Ministro Lavrov ha esposto in maniera molto netta:

1) la guerra è finita e non esiste più nessuna possibilità di azioni militari sul campo. Messaggio molto chiaro per il Presidente Bashar.

2) La comunità internazionale finalmente si è convinta che il Presidente Bashar non si discute più e l’opzione Occidentale “mai al tavolo di trattativa con Lui” è stata cancellata.

3) Lavorare affinché rapidamente si definisca un iter costituzionale definendo un riconoscimento politico e rappresentanza parlamentare ai gruppi di opposizione ad esclusione dei fratelli musulmani che sono out da qualsiasi ipotesi (messaggio per la Turchia).

4) Si deve cominciare a parlare di ricostruzione istituzionale, economica, e infrastrutturale per mandare all’occidente un segnale di normalizzazione e di cancellazioni delle sanzioni (almeno quelle UE) in attesa del dopo Trump.

La posizione Iraniana:

1) La guerra è finita e non esiste più nessuna possibilità di azioni militari sul campo. Messaggio molto chiaro per il Presidente Bashar (strategia condivisa con la Russia).

2) Ritiro truppe iraniane dal territorio siriano con definizione di punti di contatto con il territorio (Pasdaran e Hezbollah).

3) Garanzia di salvaguardia dell’investimento in termini economici e militare a difesa di eventuali movimenti turchi e del confine iracheno.

4) Definire e mettere la parola fine alla “resistenza Isis” di Idlib. Messaggio chiaro alla Turchia.

A partire dall’estate del 2016 ad oggi la Turchia ha condotto tre interventi militari nel nord della Siria (Scudo dell’Eufrate, Ramoscello di Ulivo e Sorgente di pace), non solo per impedire la formazione di una fascia territoriale curda controllata dalle Unità di protezione popolare (Ypg) ma anche per favorire il ritorno nelle aree occupate dalle forze turche dei siriani rifugiati in Turchia. È stato questo uno degli obiettivi dichiarati dell’ultima operazione, Sorgente di pace (ottobre 2019), per riportare nel nord della Siria un milione di rifugiati.

Operazione complessa, dal risultato tutt’altro che scontato alla luce della resistenza di molti ad andare in aree ancora instabili e diverse da quelle di origine, e foriera di ulteriore destabilizzazione per la configurazione demografica di queste aree a maggioranza curda.

Com’è noto, i soldati curdi delle YPG (Unità di Protezione del Popolo) sono da tempo combattuti dai turchi perché accusati di essere alleati del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi in Turchia, considerato da Ankara “terrorista”.

Allo stesso tempo, sono stati i migliori alleati dell’Occidente contro Daesh in Siria e sono stati protagonisti di alcune delle sconfitte più dure inflitte sul campo ai jihadisti, tra cui la liberazione di Raqqa e Mosul. Con la caduta di Afrin, il 17 marzo 2018, Ankara ha assunto il controllo di entrambi i lati di quasi metà (400 km su 911) della frontiera turco-siriana.

Fino ad ottobre 2019 la Siria risultava spaccata in due aree distinte, separate dal fiume Eufrate. L’Ovest era quasi integralmente sotto il controllo di Damasco e dei suoi alleati, con l’eccezione della provincia di Idlib, in cui sono ancora oggi asserragliati i principali gruppi ribelli rimasti, tra i quali diverse formazioni jihadiste. Inoltre, una striscia di territorio lungo il confine con la Turchia era occupata da truppe di Ankara e da alcuni gruppi ribelli nella sua orbita. L’Est siriano, invece, restava completamente al di fuori del controllo di Damasco. Qui erano al potere le forze curde, supportate da truppe americane. Il 6 ottobre 2019, il Presidente Donald Trump ha annunciato un parziale disimpegno del contingente americano presente nella Siria orientale. Nel giro di poche ore, le truppe statunitensi si sono ritirate dall’area limitrofa al confine con la Turchia, concentrandosi più a sud. Nella zona frontaliera sono rimaste quindi esclusivamente le Forze Democratiche Siriane (SDF) curdo-arabe.

La mossa americana è stata subito interpretata da Ankara come luce verde per lanciare un nuovo intervento militare nel Paese.

La posizione Turca:

Con le campagne del 2018 e con l’operazione (denominata “Sorgente di Pace”), avviata il 9 ottobre 2019: dopo il ritiro americano, la Turchia si è garantita il nordest della Siria come diga all’autonomia curda. Ormai Il governo siriano non considera più questo territorio come Amministrazione siriana.

Il 5 marzo 2020 a Mosca è stato concluso tra il presidente russo Putin e il presidente turco Erdogan un nuovo accordo per una cessazione delle ostilità nell’area di Idlib che dovrebbe estendersi lungo la linea tracciata dall’auto-strada M4, arteria fondamentale che collega Aleppo alla costa, e che sarà pattugliata congiuntamente da militari turchi e russi (come del resto accade lungo i confini dei territori che la Turchia ha occupato durante l’ultima operazione militare nel nord-est siriano).

L’Unione Europea sin dall’inizio ha sostenuto la necessità di porre fine al conflitto in Siria tramite una soluzione politica più che militare, pur sostenendo gli sforzi della Coalizione globale contro Daesh, e quindi riaffermando il pieno supporto al processo negoziale a guida ONU di Ginevra e la ricerca di un accordo politico inclusivo in linea con la Risoluzione 2254 e il Comunicato di Ginevra del 2012.

L’UE ha a lungo condizionato la sua disponibilità a sostenere la ricostruzione della Siria all’avvio concreto di una transizione politica onnicomprensiva inclusiva e genuina (No reconstruction without transition). Tuttavia il Governo di Assad si è rinsaldato con le vittorie militari al punto che l’allontanamento dal potere di Assad non è più all’ordine del giorno nel breve periodo. L’UE continua a sostenere una soluzione politica credibile in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con il Comunicato di Ginevra.

In aggiunta agli sforzi diplomatici, in quanto principale donatore l’UE riveste un ruolo di primo piano nella fornitura di aiuti umanitari. Dal 2011 i fondi UE stanziati per la Siria sono stati oltre 17 miliardi di euro. Inoltre, fin dall’inizio della crisi, l’UE ha adottato diverse misure restrittive nei confronti del regime siriano ed entità associate al terrorismo. Le sanzioni dell’UE attualmente in vigore nei confronti della Siria includono anche un embargo sul petrolio, restrizioni su alcuni investimenti, il congelamento dei beni della banca centrale siriana detenuti nell’UE e restrizioni all’esportazione di attrezzature e tecnologie che potrebbero essere usate a fini di repressione interna, nonché di attrezzature e tecnologie per il monitoraggio o l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche o online.

Ora è necessaria una riflessione: la UE ha speso quasi 17 miliardi di Euro per sostenere aiuti umanitari e contemporaneamente sanzioni economiche che “hanno definitamente messo in ginocchio il Paese. Dopo ormai 10 anni è chiaro che questo binomio non è vincente ma anzi è perdente. Sempre più il costo della guerra viene pagato dagli ultimi, dalla popolazione abbandonata. Prima della guerra nella zona di Damasco e della Rural Damasco vivevano circa 3.5 milioni di popolazione. Dall’inizio della guerra e fino ad oggi la popolazione della stessa area è arrivata a quasi 10 milioni e sono sfollati interni.

La UE non interviene in questa area considerando questi disperati filo-governativi. La contraddizione tra il principio strategico (molto sterile e datato 2012) e la realtà è enorme:

Nel 2018 tra i 20 paesi che esportavano in Siria beni e attrezzature nel settore privato 5 paesi erano europei: Germania, Francia, Italia, Spagna e Romania.

Nel 2019 con le sanzioni “Caesar act”, la mappa dei paesi importatori occidentali cambia radicalmente. Mentre gli Usa scompaiono dalla lista, la Francia perde in maniera enorme la sua quota segnando un – 51% . Gli altri quattro paesi europei aumentano la loro quota: Germania 13%, Italia 23,4%, Romania 6,6% e Spagna 6,6% (fonte: Economy Today).

La presenza di un Diplomatico (come Incaricato d’Affari) comincia finalmente a rappresentare un valore aggiunto e una visibilità tutta italiana (seppur dietro lo scudo EU). Il MAECI attraverso lo strumento AICS è operativo nel paese anche nella zone out-target UE e questa scelta strategica è molto apprezzata dalla popolazione siriana.

Il tuo 5 x mille può sostenere il processo di pace e gli aiuti umanitari in Siria