America Latina, un continente da conoscere

di Vincenzo Pira, Armadilla

Non so quanto sia vero oggi, ma si dice spesso che la storia la scrivano i vincitori. E anche nella comunicazione dei processi contemporanei, sia nei media tradizionali sia in Internet, prevale la visione di chi ha maggiori risorse economiche e finanziarie.

Prevalgono sempre ufficialmente denominazioni imposte da chi domina. Infatti anche il continente di cui parliamo è stato denominato “America” dal nome del navigatore Amerigo Vespucci, che per primo aveva capito che quelle terre non erano l’Oriente ma un Nuovo Mondo. Latina è quella parte delle Americhe in cui si sono imposte nell’epoca coloniale nuove lingue: spagnolo, portoghese e francese.

Terre accoglienti all’immigrazione. Gli italiani residenti in America Latina hanno raggiunto quota un milione e cento mila, ovvero poco meno di un terzo di tutti quelli all’estero, con l’Argentina che guida la classifica per numero di connazionali presenti (544.000), seguita dai 235.000 del Brasile, dai 97.000 del Venezuela e poi ancora da Uruguay (73.000), Cile (40.000), Perù (26.000), Ecuador e Colombia (11.000), Messico (10.000), Paraguay (6.000), Repubblica Domenicana (5.000), Costarica (4.000), Guatemala e Bolivia (3.000).

Terre che però erano già abitate da popolazioni indigene ben prima del secolo XV quando sono arrivati i conquistatori europei e che avevano una propria cultura distinta e parlavano le loro lingue.

Oggi i discendenti di questi gruppi indigeni, di cui parleremo in seguito, vivono negli stati-nazione costituiti successivamente e propongono una lettura della storia diversa e tentano di costruire percorsi di autodeterminazione e di libertà scrivendo una storia diversa. Alcuni leader indigeni propongono che il continente venga chiamato “Abya Yala”, che nella lingua degli indios Kuna dell’attuale Panamà significa “terra matura, in fase di fruttificazione.

1. Stato di diritto, consenso democratico e disuguaglianze

Segnali preoccupanti per la tenuta degli stati di diritto e della tenuta democratica iniziano a manifestarsi in vari paesi latino americani. Dopo anni di speranza, di crescita economica, di diminuzione della povertà e dell’esclusione sociale in tanti paesi anche in America Latina si guarda al futuro con preoccupazione.

Gli Stati Uniti continuano a giocare un ruolo egemone nel continente, che hanno sempre considerato come il proprio “cortile di casa” e che è messo in crisi negli ultimi anni da un crescente protagonismo della Cina soprattutto a livello economico.

Con l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, i paesi latino americani devono fare il conto con la politica dell’America First!

Ciò non evoca solo la disfida commerciale col Messico, le accuse incrociate sulla sicurezza di confine e l’immigrazione, la decisione di costruire un muro per tutto il confine.

La crescente ingerenza degli Stati Uniti nelle questioni latinoamericane si sta concretizzando sotto forma di due strategie d’azione complementari: da un lato, l’obiettivo è mettere sotto pressione gli Stati considerati scarsamente amichevoli nei confronti di Washington, Cuba e Venezuela in primis, e in parte il Messico, al fine di accentuare il loro isolamento internazionale; dall’altro, rafforzare la leadership di Washington in seno all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) attraverso la convergenza geopolitica con i governi maggiormente affini, tra cui si segnalano tre importanti Paesi del Sud America, per la precisione Brasile, Argentina e Colombia.

In Brasile è stato favorito un vero e proprio “Colpo di stato istituzionale” che ha destituito la presidente Dilma Rousseff nell’estate del 2016, la carcerazione ritenuta arbitraria e giuridicamente insostenibile dell’ex presidente Luis Inàcio Lula da Silva, ha visto in ottobre l’elezione di un presidente, Jair Bolsonaro, di estrema destra e di poca affidabilità democratica e di nessuna sensibilità sociale.

Ciò, oltre a chiudere la lunga fase di governi del PT (Partito dei lavoratori) iniziata nel 2002, determina lo spostamento a destra dell’asse geopolitico sudamericano, cambiandone gli equilibri preesistenti, anche all’interno delle organizzazioni sovranazionali. In particolare, è il Mercosur a subirne gli effetti più diretti con la creazione di un blocco maggioritario di paesi di destra (Brasile, Argentina e Paraguay) che avvia un processo di cambiamento della strategia commerciale, favorendo le relazioni e politiche con accordi di libero commercio (Tlc) a scapito di quelle fra i paesi membri. E cancellando politiche educative, sociali e sanitarie di inclusione.

In Messico è stato eletto presidente Andrés Manuel López Obrador “AMLO” ex sindaco di città del Messico e con un programma molto attento al sociale e ai diritti degli esclusi.

Altro fatto attuale e molto rilevante è la carovana di oltre 10 mila persone, donne, uomini e bambini che è partita da San Pedro Sula, nel nord dell’Honduras, una ventina di giorni fa, a cui si sono aggiunti guatemaltechi, salvadoregni e venezuelani e in questo momento sta attraversando il Messico. Illegalmente: si tratta infatti di migranti definiti “clandestini” che per sfuggire alle violenze e alla povertà nel proprio paese hanno deciso di tentare un’azione al contempo concreta e simbolica.

Il loro obiettivo, infatti, è di raggiungere e varcare la frontiera con gli Stati Uniti. Il cui presidente, Donald Trump, ha già affermato di essere pronto a bloccare “l’assalto” dei migranti e di mandare 15 mila soldati a presidiare le frontiere.

Trump ha anche minacciato di chiudere il confine meridionale nel caso in cui la carovana non dovesse essere bloccata e di sospendere tutti gli aiuti internazionali ai governi che non impediscono tale esodo.

Il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernandez, e il suo omologo del Guatemala, Jimmy Morales, hanno puntato tuttavia il dito contro chi “sfrutta la sfortuna delle persone per motivazioni politiche” (Venezuela in primis).

Con un recente ordine esecutivo, Trump ha avviato lo smantellamento dell’accordo con Cuba siglato nel 2014 da Barack Obama e Raul Castro e avviato un processo che porterà a nuove restrizioni nei permessi di viaggio verso Cuba e nelle possibilità, per le imprese statunitensi, di portare avanti rapporti economici con le società facenti capo alle organizzazioni militari del governo castrista. Restrizioni mirate innanzitutto ad accontentare il serbatoio elettorale cubano-americano che ha favorito la conquista elettorale della Florida.

I cittadini dell’America Latina (AL) mostrano sempre più una grande insoddisfazione nei confronti dei loro governi e delle istituzioni pubbliche. È aumentata in questi ultimi anni la disconnessione tra la società e le istituzioni pubbliche. La fiducia dei cittadini nelle istituzioni, tradizionalmente bassa in tutti i paesi dell’AL, ha raggiunto il nel 2017 il 75 %, 20 punti percentuali in più rispetto al 2010.

Nel periodo 2006-2016, la popolazione che si dice soddisfatta della qualità dei servizi sanitari è scesa dal 57% al 41%, ben al di sotto dei livelli dell’OCSE (stabili attorno al 70%). Allo stesso modo, la soddisfazione per il sistema educativo è diminuita, nello stesso periodo, dal 63% al 56%.

Tale crescente insoddisfazione è motivata in gran parte dalla crescita nel continente della classe media.

Nel 2015, circa il 34,5% della popolazione è classificata come “classe media consolidata” (che ha un reddito tra 10 e 50 USD al giorno).

La “classe media vulnerabile” (che vive con 4-10 dollari al giorno è cresciuta e rappresenta circa il 40% della popolazione nel 2015, un aumento dal 34% nel 2000.

Questo gruppo socioeconomico vive con l’incertezza di ricadere nella povertà come conseguenza di una battuta d’arresto economica, data la precarietà della loro situazione economica e occupazionale. Nel complesso, le più alte aspettative, spesso insoddisfatte, della classe media consolidata, la instabilità della classe media vulnerabile, e l’alta percentuale della popolazione che ancora vive in povertà, sono fonte di preoccupazione e insoddisfazione tra i cittadini.

La disconnessione tra società e istituzioni è anche motivata da una crescita insufficiente e la grande disuguaglianza che persiste ancora, in un contesto domestico e incertezza internazionale.

Queste difficoltà potrebbero essere aggravate dopo la contrazione economica di due anni nel 2015-2016, sebbene sia iniziata una ripresa modesta, con una crescita dell’1,3% del PIL nel 2017 e una crescita attesa tra 2-2,5% per il 2018.

L’alta borghesia ricca, quando percepisce che le istituzioni pubbliche non sono in grado di rispondere alle loro richieste di standard elevati dei servizi (soprattutto sanitari ed educati) tendono a incanalare la loro insoddisfazione, rinunciando ai servizi pubblici di bassa qualità e ricorrono a migliori servizi privati di alta qualità. Tuttavia, dovrebbero ancora pagare le tasse per i servizi pubblici che non utilizzano e ciò porta ad elusione ed evasione delle tasse ritenute illegittime.

Nel 2015 il 52% dei latinoamericani erano disposti, quando possibile, ad evadere le tasse, (era il 46% in 2011).

Un altro aspetto decisivo per il passaggio dal reddito medio al reddito elevato è l’integrazione commerciale, campo in cui in AL vi è ancora molto da fare. L’integrazione a livello regionale è stata scarsa: solo il 16% delle esportazioni totali dell’AL è destinato al mercato regionale. Anche la scena commerciale globale è diventata sempre più complessa, data la crescente importanza di atteggiamenti protezionistici e sospettosi nei processi di globalizzazione. La convergenza di Pacific Alliance e Mercosur è una delle aree che dà maggiori speranze.

In America Latina c’è una disputa permanente sul futuro del continente intorno a quattro progetti o proposte.

Il primo è la ripresa dell’offensiva degli USA che vogliono avere l’egemonia nella regione (in forte concorrenza con la Cina) per controllare il commercio delle materie prime e dell’energia e favorire le imprese, che qui, ottengano il massimo profitto.

C’è un secondo progetto che sostiene un’integrazione continentale, senza gli statunitensi, ma ancora nel segno degli interessi delle imprese capitaliste.

E un terzo progetto che riunisce i partiti di centro – sinistra aderenti al Forum di Sao Paulo, promosso in Brasile da Lula e dal PT. Le posizioni politiche variano all’interno di una vasta gamma, che comprende i partiti socialdemocratici, organizzazioni comunitarie, sindacali e sociali legate alla sinistra cattolica, gruppi etnici e ambientali, le organizzazioni nazionaliste, i partiti comunisti e anche gruppi guerriglieri come le FARC.

Oggi un quarto progetto minoritario che chiamano Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA), si propone di realizzare una integrazione economica, politica e culturale che difende soprattutto l’esperienza chavista in Venezuela e la forte contrapposizione all’imperialismo statunitense.

Nonostante queste criticità geopolitiche il XXI secolo è stato un periodo di progresso senza precedenti. Tra il 2002 e il 2017, 60 milioni di persone della regione sono usciti dalla povertà. (Un continente di oltre 20 milioni di Km2 e di circa 600 milioni di abitanti).

Uno studio della Banca Mondiale “Chronic Poverty in Latin America and the Carribbean” pubblicato all’inizio di marzo 2017 fa riflettere sul futuro di questo continente.

In questo decennio, il tasso di povertà (la quota di cittadini che vivono con meno di 4 dollari al giorno) è costantemente caduto. Negli ultimi tre anni, lo stesso indice è stabile al 28% della popolazione in accordo con la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’ America Latina e i Caraibi (ECLAC). La proporzione di chi è estremamente povero (gli indigenti che hanno un reddito giornaliero di meno di 2,50 dollari al giorno) ha raggiunto il 12%.

Questi dati sono preoccupanti. L’ineguaglianza della distribuzione della ricchezza seppur diminuita in questo secolo rimane estremamente alta. Una regione con un buon reddito medio di circa 13.500 dollari ha ancora un notevole numero di poveri.

Il trend varia da paese a paese. Dal 2012 la povertà ha continuato la discesa in Brasile, Messico, El Salvador, Colombia, Perù, e Cile, ma è aumentata rapidamente in Venezuela e Argentina.

Ma un largo numero di latino americani non ha beneficiato molto dalla crescita economica.

La classifica delle nazioni più diseguali al mondo – basata sull’Indice di Gini – indica che il paese meno disuguale al mondo è la Norvegia, mentre quello ove le disparità economiche sono più accentuate, è il Sudafrica. Richiama inoltre l’attenzione che, dopo certe aree africane, è l’America latina a confermarsi come la Regione più ingiusta del pianeta.

Tra i 14 Paesi più diseguali della Terra, ben sei sono latinoamericani: le posizioni tra la sesta e la decima sono occupate nell’ordine da Honduras, Colombia, Brasile, Guatemala, e Panama, mentre il Cile si trova in quattordicesima posizione.

Per commentare con qualche esempio: secondo la Banca mondiale, il 64,5% della popolazione dell’Honduras si trova in situazione di povertà; mentre il 42,6% vive in miseria (o povertà estrema), potendo contare solo su un reddito giornaliero che non supera i due dollari e mezzo. Le situazioni più critiche, nel Paese centramericano, sono concentrate soprattutto nelle zone rurali; mentre i maggiori tassi di sviluppo si registrano essenzialmente nelle città.

Seppur in termini di prodotto interno lordo (PIL) por capite i colombiani stiano molto meglio degli honduregni, in quanto a distribuzione della ricchezza il quadro è pressoché uguale. Il dieci per cento più ricco della popolazione guadagna, infatti, quattro volte in più rispetto al 40% più povero. Le disparità si riflettono non solo sull’accesso a sanità e scuola, ma anche sulla distribuzione delle terre: secondo una ricerca dell’Universidad de Los Andes – ben il 77,6% delle terre è in mano al 13,7% dei proprietari.

La maggior Economia latino americana è quella del Brasile, e per anni recenti ha prodotto un indiscutibile processo di riduzione della povertà, possa essere slegato da un’evoluzione verso una più equa ripartizione delle ricchezze. Se nel 2006 il cinque per cento più ricco della popolazione si accaparrava il 40% delle ricchezze prodotte, ecco che nel 2012 detta percentuale saliva al 44%, nonostante le politiche socio-assistenziali del Governo federale, e gli effetti del Programa Fome zero (con tanto di quaranta milioni di persone fuoriuscite dalla povertà).

E il quadro di disparità sarebbe ancor più inquietante, se si tenesse conto anche della ricchezza non dichiarata: in un Paese ove l’evasione fiscale e l’economia sommersa sono stimate rispettivamente al 13,4 e al 39% del PIL. E se consideriamo le gravi disparità nell’accesso a salute e educazione, le dure politiche di austerity, e la circostanza che nel 2015 c’è stata una decrescita del 3,8%, per il futuro non vediamo spazi per l’ottimismo.

Lo studio della banca mondiale mostra che 130 milioni di cittadini latinoamericani ovvero circa il 21% della popolazione totale è rimasto costantemente povero dal 2004. In Colombia il dato supera il 30% e in Guatemala una scioccante percentuale del 50%.

Un altro aspetto riguarda i cosiddetti “vulnerabili” (cittadini situati tra i poveri e il ceto medio) coloro che hanno un reddito medio compreso tra i 4 e gli 11 dollari al giorno. Questa larga parte della popolazione manca di un’adeguata istruzione, risparmi o altre protezioni capaci di assicurare il minimo benessere in caso di perdita del posto di lavoro.

2. Rispetto dei diritti umani e discriminazioni

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la regione dell’America Latina e dei Caraibi continuava a essere la più violenta del mondo per le donne, nonostante la presenza di rigide normative che miravano a contrastare questa crisi. A livello globale, la regione deteneva anche la più alta percentuale di violenza contro le donne per mano di individui senza legami intimi con la vittima ed era al secondo posto per episodi di violenza per mano del partner.

Discriminazione e disuguaglianza sono rimaste la norma nell’intero continente. La regione ha continuato a essere devastata da elevati livelli di violenza, con ondate di uccisioni, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie. I difensori dei diritti umani hanno affrontato un aumento del grado di violenza nei loro confronti. L’impunità è rimasta dilagante. Si è fatta strada una retorica politica volta a demonizzare e a dividere.

Le popolazioni indigene hanno affrontato discriminazioni e hanno continuato a vedersi negare i diritti economici, sociali e culturali, compresi i loro diritti alla terra e a un consenso libero, anticipato e informato in merito alla realizzazione di progetti che avevano ripercussioni sulle loro vite.

I governi della regione hanno fatto scarsi progressi nella tutela dei diritti di donne e ragazze e delle persone LGBT.

Moltissime persone hanno dovuto affrontare una crisi dei diritti umani sempre più profonda, alimentata da una regressione dei diritti umani nelle leggi, nelle politiche e nelle prassi, insieme a un crescente ricorso a una retorica politica volta a demonizzare e a dividere. Questa regressione ha rischiato di diventare endemica in molti paesi. Ha aggravato la mancanza di fiducia nelle autorità, che si è manifestata in percentuali sempre più basse di affluenza alle elezioni e ai referendum, e in generale nelle istituzioni, come i sistemi giudiziari nazionali.

Invece di guardare al rispetto dei diritti umani come un modo per costruire un futuro più equo e sostenibile, molti governi hanno preferito ripiegare sulla tattica della repressione, utilizzando le forze di sicurezza e i sistemi giudiziari per mettere a tacere il dissenso e le critiche; lasciando che i frequenti casi di tortura e altri maltrattamenti restassero impuniti e cavalcando la diffusa disuguaglianza, povertà e discriminazione, alimentate dalla corruzione e da una costante incapacità di garantire l’accertamento delle responsabilità e la giustizia.

Un duro colpo ai diritti umani è stato segnato dall’adozione di una serie di ordini esecutivi emanati dal presidente americano Donald Trump, compresi quello divenuto poi noto come “Muslim ban” e quello relativo al piano per la costruzione di un muro lungo il confine degli Usa con il Messico.

In vari paesi della regione, tra cui Brasile, El Salvador, Honduras, Messico e Venezuela, continui episodi di violenza efferata sono stati la norma. La violenza che ha caratterizzato durante l’anno la regione è stata spesso alimentata dalla proliferazione di armi di piccolo calibro illegali e dalla crescita della criminalità organizzata.

Sono stati diffusi anche gli episodi di violenza contro persone Lgbti, donne e ragazze e popolazioni native.

Il Messico è stato testimone di un’ondata di uccisioni di giornalisti e difensori dei diritti umani. Il Venezuela ha affrontato la peggiore crisi dei diritti umani della sua storia moderna. In Colombia, l’uccisione di nativi e di leader afroamericani ha fatto emergere una serie di limiti nell’implementazione del processo di pace nel paese.

Attivisti per i diritti della terra sono stati vittime di episodi di violenza e altri abusi in molti paesi. La regione ha continuato a registrare un allarmante aumento delle minacce e degli attacchi contro i difensori dei diritti umani, i leader comunitari e i giornalisti, anche attraverso un uso improprio del sistema giudiziario.

Moltissime persone hanno abbandonato le loro case per sfuggire alla repressione, alla violenza, alla discriminazione e alla povertà. Molte hanno subìto ulteriori abusi mentre erano in viaggio o tentavano di raggiungere altri paesi della regione.

A causa dell’incapacità degli stati di tutelare i diritti umani, gli attori non statali si sono sentiti più liberi di compiere crimini di diritto internazionale e altri abusi. Un esempio fra tutti è quello dei vari gruppi della criminalità organizzata, che in alcuni casi avevano il controllo su interi territori, potendo spesso contare sull’acquiescenza o sulla complicità delle forze di sicurezza. Società nazionali e multinazionali hanno cercato di ottenere il controllo sulla terra e sul territorio delle comunità locali, tra cui le popolazioni native e, in alcuni paesi come Perù e Nicaragua, anche dei contadini.

Il mancato rispetto dei diritti economici, sociali e culturali ha provocato diffuse sofferenze. Ribaltando la linea politica degli Usa, l’amministrazione del presidente Trump ha ridotto le possibilità che il congresso degli Usa approvasse la legge per revocare l’embargo economico su Cuba, perpetuando così le conseguenze negative sulla vita dei cubani generate dalle sanzioni economiche. Le autorità del Paraguay non hanno provveduto a garantire il diritto a un alloggio adeguato in seguito agli sgomberi forzati. Haiti ha registrato migliaia di nuovi casi di colera.

Decine di migliaia di persone sono state sfollate dalle loro abitazioni e hanno avuto difficoltà a causa degli ingenti danni alle infrastrutture nell’area dei Caraibi, tra cui nella Repubblica Dominicana e a Portorico, causati da due imponenti uragani, tra le varie calamità naturali verificatesi durante l’anno. In Messico, due devastanti terremoti sono costati la vita a centinaia di persone, compromettendo anche i diritti della popolazione a un alloggio adeguato e all’istruzione.

No, non vanno verso l’estinzione, come le cronache prese nella loro frammentazione e sconnesse dal contesto generale indurrebbero a ritenere. I nativi, i discendenti delle popolazioni autoctone dell’America Latina, sono in aumento. Lo rileva un rapporto presentato dalla Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL) nel quadro della Conferenza mondiale sui Popoli indigeni delle Nazioni Unite che si è appena conclusa a New York. Nel continente si stima una presenza di 826 popoli indigeni, per un totale di 45 milioni di persone, che in percentuale rappresentano l’8,3% dell’intera popolazione. Nel rapporto precedente, del 2007, l’autorevole organismo con sede in Cile calcolava in 30 milioni il numero di autoctoni alla fine del 2000, raggruppati in 624 popoli. Tradotto in percentuale l’aumento è del 49,3 per cento in poco più di un decennio.

Il Brasile è il paese con il maggior numero di popoli indigeni, circa 305 (900 mila persone, lo 0,5 per cento della popolazione), seguito da Colombia (102), Perù (85), Messico (78) e Bolivia (39 ).

Tra le ragioni principali della crescita la CEPAL segnala un miglioramento nell’accesso degli indigeni ai servizi sanitari, all’istruzione e alla terra, seppur in termini relativi se comparato con lo sviluppo e la diffusione che tali servizi hanno registrato nel loro insieme. Per la Commissione le disuguaglianze restano profonde e la conflittualità elevata. Lo stesso rapporto dal titolo “Los pueblos indígenas en América Latina: avances en el último decenio y retos pendientes para la garantía de sus derechos”, identifica 200 conflitti sociali e ambientali nei territori indigeni legati al settore minerario e dell’estrazione di idrocarburi tra il 2010 e il 2013.

GRUPPO ETNICO DOVE RISIEDONO POPOLAZIONE
Quecha Perù, Bolivia, Ecuador, Colombia, Argentina 12.581.000
Maya Guatemala, Messico, Honduras, Salvador 6.500.000
Aimara Bolivia, Perù, Cile, Argentina 2.296.000
Nahatl Messico, Salvador 1.197.000
Manuche Cile, Argentina 988.000
Zapoteco Messico 403.000
Guajiro Venezuela, Colombia 297.000
Misquito Nicaragua, Honduras 285.000
Otomi Messico 280.000
Garifuna Honduras, Nicaragua, Belice, Guatemala 220.000
Lenca Honduras 220.000
Totonaca Messico 207.000

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